un giardino inglese, mal custodito, ne convengo, ma che non
pertanto bisogna calunniare."
"Signore, non rimanete là, ve ne supplico!"
"Io credo che siate un po' matto, compare Bertuccio!" disse
freddamente il conte. "Se è così, ditemelo, che vi farò
rinchiudere in qualche casa di salute, prima che succeda una
disgrazia."
"Ahimè, Eccellenza" disse Bertuccio, scuotendo la testa, e
piegando le mani in un'attitudine che avrebbe fatto ridere il
conte, se ben altri pensieri non lo avessero preoccupato in quel
momento, e reso molto attento alle più piccole manifestazioni di
quella coscienza timorosa. "Ahimè, la disgrazia è accaduta!"
"Bertuccio" disse il conte, "devo dirvi che gesticolate,
contorcete le braccia e stralunate gli occhi come un ossesso, dal
cui corpo il diavolo non voglia uscire. Ora ho sempre notato che
il diavolo più ostinato ad uscire è un qualsiasi segreto. Vi
sapevo corso, vi stimavo taciturno, ruminando sempre qualche
storia di vendetta, e vi perdonavo questo in Italia, sebbene anche
in Italia questa specie di cose non siano trascurabili; ma in
Francia si giudica l'assassinio una pessima cosa; vi sono gendarmi
che se ne occupano, giudici che lo condannano, patiboli che lo
vendicano."
Bertuccio congiunse le mani, e, siccome non lasciava il fanale, la
luce venne a rischiarargli il viso sconvolto.
Montecristo per un momento lo esaminò, come a Roma aveva osservato
il supplizio di Andrea. Quindi con un tono di voce che fece
scorrere un brivido per il corpo del povero intendente:
"L'abate Busoni mi ha dunque ingannato" disse, "quando, dopo il
suo viaggio in Francia nel 1829, v'inviò a me, munito di una
lettera di raccomandazione, nella quale mi lodava le vostre
preziose qualità. Ebbene, scriverò all'abate, gli chiederò del suo
protetto, ed allora saprò senza dubbio che cosa è tutto questo
affare di assassinio. Vi prevengo soltanto, Bertuccio che quando
io vivo in un paese, ho l'abitudine d'uniformarmi alle sue leggi,
e che non ho alcuna volontà d'intrigarmi per voi colla giustizia
in Francia."
"Non fate questo, Eccellenza... Vi ho servito fedelmente, non è
vero?" gridò Bertuccio disperato. "Sono stato un galantuomo, e per
quanto ho potuto, ho fatto delle buone azioni."
"Non dico di no" rispose il conte, "ma perché diavolo siete ora
agitato in tal modo? Questo è un cattivo segno... Una coscienza
pura non porta tanto pallore sulle guance, tanta febbre nelle mani
di un uomo."
"Ma, signor conte" interruppe Bertuccio, "non mi avete detto voi
stesso che l'abate Busoni, che fu quello che raccolse la mia
confessione nelle carceri di Nimes, vi aveva avvertito, inviandomi
a voi, che io avevo un rimorso nella coscienza?"
"Sì, ma siccome vi raccomandava dicendomi che avrei ritrovato in
voi un eccellente intendente, credetti che voi aveste rubato, ecco
tutto."
"Oh, signor conte!" fece Bertuccio con dolore.
"Ovvero che, essendo voi corso, non avevate potuto resistere al
desiderio di far la pelle a qualcuno, come vien detto nel vostro
paese..."
"Ebbene, sì, mio signore, sì, mio buon signore, è questo" gridò
Bertuccio, gettandosi alle ginocchia del conte, "sì, fu una
vendetta, lo giuro, una semplice vendetta!"
"Capisco, ma ciò che non capisco è come questa casa vi ecciti in
tal modo."
"Eppure la cosa è naturale, poiché fu appunto in questa casa che
si compì la vendetta."
"Che, in casa mia?"
"Oh, signore, non era ancora vostra..." obiettò ingenuamente
Bertuccio.
"Ma di chi era dunque?"
"Del signor marchese di Saint-Méran, ci ha detto, credo, il
portinaio."
"Che diavolo dunque avevate da vendicarvi del marchese di Saint-
Méran?"
"Ah, non fu di lui, signore, fu di un altro."
"Ecco una strana combinazione" disse Montecristo, sembrando cedere
alle sue riflessioni, "voi vi trovate in tal modo per caso, senza
alcun preparativo, in una casa dove è accaduta una scena che vi dà
tanti terribili rimorsi."
"Signore" disse l'intendente, "pare che sia una specie di fatalità
a muovere tutto questo, ne sono ben sicuro... Per prima cosa
comprate una casa in Auteuil, e questa casa è precisamente quella
dove ho commesso l'assassinio; poi scendete nel giardino, e giusto
per la scala per cui egli discese, e vi fermate proprio nel luogo
ov'egli ricevette il colpo, e a due passi da quest'albero era la
fossa dove egli aveva seppellito il bambino: tutto ciò non può
essere opera del caso."
"Ebbene, vediamo, signor corso, io suppongo sempre tutto...
D'altra parte bisogna saper fare delle concessioni agli spiriti
ammalati. Vediamo: richiamate il vostro buonsenso e raccontatemi
tutto."
"Io non l'ho raccontato che una sola volta, signore, all'abate
Busoni. Simili cose" disse Bertuccio scuotendo la testa, "non si
raccontano che sotto il suggello della confessione."
"Allora, mio caro Bertuccio, riterrete giusto che vi rimandi al
vostro confessore; vi farete con lui certosino o bernardino, e
ragionerete sui vostri segreti. Ma io ho paura di un ospite
spaventato da simili fantasmi; non amo che le mie genti non
abbiano il coraggio di passare di notte per il giardino. Poi ve lo
confesso, mi piacerebbe poco qualche visita del commissario di
polizia; poiché, intendete bene, Bertuccio, si dice che in qualche
luogo la polizia venga pagata perché taccia, ma in Francia al
contrario si paga quando parla. Perdinci, vi credevo corso,
contrabbandiere, e bravo intendente, ma ora m'avvedo che avete
ancora altre corde al vostro arco. Voi perciò non siete più al mio
servizio, Bertuccio."
"Ah, signore, signore!" gridò l'intendente colpito dal terrore di
questa minaccia. "Se non dipende che da questo perché io rimanga
al vostro servizio, parlerò, dirò tutto; e se vi lascio, sarà
soltanto per andare al patibolo!"
"Adesso andiamo meglio" disse Montecristo, "ma se voleste mentire
riflettete bene, non parlate affatto."
"No, signore, ve lo giuro sulla salute dell'anima mia, vi dirò
tutto... Lo stesso abate Busoni non ha saputo che una parte del
segreto. Ma prima ve ne supplico, allontanatevi da questo
platano... Osservate, la luna va a rischiarare quella nube, e là,
in quella posizione, avvolto in quel mantello che mi nasconde la
vostra corporatura, e che somiglia a quella del signor
Villefort..."
"Come?" gridò Montecristo. "Fu Villefort...?"
"Vostra Eccellenza lo conosce?"
"Sì."
"Quello che sposò la figlia del marchese di Saint-Méran."
"Sì, e che negli uffici godeva la reputazione del più onesto uomo,
del più severo e del più rigido magistrato?"
"Ebbene signore" gridò Bertuccio, "quest'uomo d'irreprensibile
reputazione..."
"Ebbene?"
"Era un infame!"
"Evvia" disse Montecristo, "è impossibile!"
"Eppure è come vi dico."
"Veramente?" disse Montecristo. "E ne avete le prove?"
"Le avevo, almeno."
"E le avete perdute, malaccorto?"
"Sì, ma cercando bene si possono ritrovare."
"Davvero?" disse il conte. "Raccontatemi ciò, Bertuccio, perché la
cosa incomincia ad interessarmi davvero."
E il conte, canterellando una piccola aria della Lucia, andò a
sedersi in una panca, mentre Bertuccio lo seguiva concentrando la
sua memoria, restando in piedi davanti a lui.
Capitolo 43.
LA VENDETTA.
"Da dove desiderate, signor conte, che cominci il racconto?"
domandò Bertuccio.
"Da dove volete" disse Montecristo, "giacché non ne so
assolutamente niente." "Credevo che Vostra Eccellenza avesse già
saputo che..."
"Sì, qualche particolare senza dubbio; ma sono passati sette o
otto anni, e nulla più mi ricordo."
"Allora posso, senza tema d'annoiare Vostra Eccellenza..."
"Raccontate pure, mi farete le veci di un giornale."
"Le cose rimontano al 1815."
"Ah, ah" fece Montecristo, "il 1815 non fu ieri."
"No, signore, tuttavia i più piccoli particolari sono presenti
come fosse oggi. Io avevo un fratello maggiore che era al servizio
dell'Imperatore. Era sottotenente in un reggimento composto tutto
di corsi. Era anche il mio unico amico, noi eravamo rimasti
orfani: egli a diciotto, io a cinque anni; e mi aveva allevato
come fossi stato suo figlio. Si ammogliò nel 1814 sotto i Borboni;
ma quando l'Imperatore ritornò dall'isola d'Elba, mio fratello
riprese subito servizio; poi ferito leggermente a Waterloo, si
ritirò coll'esercito dietro la Loira."
"Ma questa è la storia dei cento giorni, Bertuccio, ed è già stata
fatta, se non sbaglio"
"Scusate, Eccellenza, ma questi primi particolari sono necessari,
e voi mi avete promesso d'esser paziente."
"Avanti, avanti! Non dirò più una parola."
"Un giorno ricevemmo una lettera... Bisogna dirvi che abitavamo
nel piccolo villaggio di Rogliano, all'estremità del capo Corso...
Era di mio fratello, il quale diceva che l'esercito era stato
sciolto e lui ritornava per la via di Chateauroux, Clermont-
Ferrand, le Puy e Nimes, e che se avevo denaro glielo inviassi a
Nimes presso un albergatore di nostra conoscenza..."
"Contrabbandiere" interruppe il conte.
"Eh, mio Dio, bisogna bene che tutti vivano."
"Certamente, continuate dunque."
"Io amavo teneramente mio fratello, ve l'ho detto, per cui decisi
di non inviargli il denaro, ma di portarglielo io stesso.
Possedevo un migliaio di franchi; ne lasciai cinquecento ad
Assunta, mia cognata, presi gli altri cinquecento e mi misi in
viaggio per Nimes... Era cosa facile, avevo la mia barca, un
carico da fare per mare: tutto secondava il mio disegno. Ma, fatto
il carico, il vento divenne contrario, di modo che stemmo tre o
quattro giorni senza potere entrare nel Rodano. Finalmente vi
riuscimmo: risaliti fino ad Arles lasciai la barca fra Bellegarde
e Beaucaire, e presi la via di Nimes; erano i giorni in cui
accadeva il famoso massacro del mezzogiorno. Due o tre briganti
chiamati Trestaillon, Truphemy e Graffan, scannavano sulle strade
tutti quelli che credevano bonapartisti. Senza dubbio il signor
conte avrà inteso parlare di questi assassini."
"Sì, ma vagamente; allora ero lontano dalla Francia."
"Entrando a Nimes si camminava, alla lettera, nel sangue; a
ciascun passo s'incontravano cadaveri: gli assassini, ordinati in
bande, uccidevano, saccheggiavano, bruciavano. Alla vista di tanta
carneficina, mi prese un tremito, non per me, io, semplice
pescatore corso, non avevo da temere, anzi per noi
contrabbandieri, quelli erano tempi buoni, ma per mio fratello,
soldato dell'impero, che ritornava dall'esercito della Loira colla
sua uniforme, le spalline, c'era tutto da temere... Corsi dal
nostro albergatore, i miei presentimenti non mi avevano ingannato:
mio fratello giunto il giorno innanzi a Nimes, alla stessa porta
di quello cui andava a chiedere ospitalità era stato assassinato.
Feci il possibile per riconoscere gli uccisori, ma nessuno osò
dirmi i loro nomi, tanto erano temuti. Pensai allora alla
giustizia francese, di cui tanto mi era stato parlato, e che nulla
teme, e mi presentai al procuratore del re."
"E questo procuratore del re si chiamava Villefort?" chiese
negligentemente Montecristo.
"Sì, Eccellenza, veniva da Marsiglia dove era stato sostituto. Il
suo zelo gli aveva procurato l'avanzamento. Era stato uno dei
primi, si diceva, che avevano annunziato al governo lo sbarco
dall'isola d'Elba."
"Dunque" riprese Montecristo, "vi presentaste a lui?"
"Signore" gli dissi, "mio fratello è stato assassinato ieri nelle
strade di Nimes, non so da chi, ma è vostro compito saperlo. Voi
siete qui il capo della giustizia, e spetta alla giustizia
vendicare quelli che non ha saputo difendere."
"E che cos'era vostro fratello?" domandò il procuratore del re.
"Sottotenente nel battaglione corso."
"Un soldato dell'imperatore allora..."
"Un soldato dell'esercito francese."
"Ebbene" replicò, "si è servito della spada, ed è morto di spada."
"Voi v'ingannate, signore, egli perì sotto il pugnale."
"E che volete che faccia?" risponde il magistrato.
"Ve l'ho già detto, voglio che lo vendichiate."
"E di chi?"
"Dei suoi assassini."
"E che, li conosco io?"
"Fateli cercare."
"Per farne che? Vostro fratello avrà avuto qualche contesa, e si
sarà battuto in duello. Tutti questi vecchi soldati cadono in
eccessi, che riuscivano bene sotto l'impero, ma che ora riescono
male; adesso le nostre genti del mezzogiorno non amano né i
soldati, né gli eccessi."
"Siccome non è per me che vi prego. Io piangerei, o mi
vendicherei, ecco tutto; ma il mio povero fratello aveva una
moglie. Se accadesse anche a me qualche disgrazia, povera donna,
morirebbe di fame, perché il solo lavoro di mio fratello la faceva
vivere. Ottenete per lei una piccola pensione del governo."
"Ciascuna rivoluzione ha la sua catastrofe; vostro fratello è
rimasto vittima di questa, è una disgrazia; ma il governo nulla
deve per ciò alla vostra famiglia. Se dovessimo giudicare tutte le
vendette che i partigiani si sono prese su quelli del re, quando
avevano il potere, vostro fratello oggi forse sarebbe condannato a
morte. Ciò che accade è naturale, perché è la legge di
rappresaglia."
"E che signore!" gridai io. "E' mai possibile che parliate così,
voi magistrato...?!"
"Tutti questi corsi sono pazzi" rispose Villefort. "Credono ancora
che il loro compatriota sia imperatore. Voi sbagliate epoca,
dovevate venirmi a dir questo due mesi fa: oggi è troppo tardi.
Andatevene dunque, e se non volete andare, vi farò buttar fuori."
Lo guardai un momento per vedere se, con una nuova preghiera, vi
fosse stata qualche cosa da sperare. Quest'uomo era di pietra. Mi
avvicinai a lui.
"Ebbene" gli dissi a mezza voce, "poiché conoscete tanto bene i
corsi dovete sapere in qual modo essi mantengono la loro parola.
Voi trovate che hanno fatto bene ad uccidere mio fratello, che era
bonapartista, perché voi siete regio; ebbene io che sono
ugualmente bonapartista, vi dichiaro una cosa, che vi ammazzerò!
Da questo momento vi dichiaro vendetta; per cui cautelatevi bene,
e guardatevi come meglio potrete; poiché la prima volta che ci
ritroveremo faccia a faccia, sarà segno che è giunta l'ultima
vostra ora."
Dopo ciò, prima ancor che si fosse rimesso dalla sorpresa, aprii
la porta e fuggii."
"Oh, oh" disse Montecristo, "colla vostra onesta figura fate di
queste cose, Bertuccio, ed anche ad un procuratore del re? Va
bene! Ma sapeva almeno ciò che voleva dire la parola vendetta?"
"Lo sapeva tanto bene, che da quel giorno non uscì più solo, e si
chiuse in casa, facendomi cercare dappertutto. Fortunatamente ero
tanto ben nascosto, che non poté trovarmi. Allora fu preso dalla
paura, tremò di restare più lungamente a Nimes: sollecitò una
permuta di residenza e siccome era realmente persona d'influenza
si fece nominare a Versailles. Ma, voi lo sapete, non vi sono
distanze per un corso che ha giurato di vendicarsi del suo nemico,
e la sua carrozza, per quanto fosse bene condotta, non ha mai
avuto più di una mezza giornata di vantaggio su me, sebbene lo
seguissi a piedi. L'importante non era d'ucciderlo, cento volte ne
avrei trovato l'occasione, ma di ucciderlo senza essere scoperto,
e particolarmente senza essere arrestato. Ormai non ero più
indipendente, avevo da proteggere e da nutrire mia cognata. Per
tre mesi lo appostai: e per tre mesi non fece un passo, un
movimento, una passeggiata senza che il mio sguardo non lo
seguisse ovunque andava. Finalmente scoprii che veniva
misteriosamente ad Auteuil: lo seguii, e lo vidi entrare in questa
casa ove siamo; soltanto, invece d'entrare, come tutti, dalla
porta grande della strada, egli veniva o a cavallo, o in carrozza,
e lasciando il cavallo o la carrozza all'albergo, entrava per
quella piccola porta che vedete là."
Montecristo fece colla testa un segno che provava che malgrado
l'oscurità, distingueva l'entrata indicata da Bertuccio.
"Io non ero più necessario a Versailles, mi stabilii ad Auteuil, e
presi le mie misure. Se volevo prenderlo era evidentemente qui che
dovevo tendere il laccio. La casa apparteneva, come il portinaio
ha detto, al signor marchese di Saint-Méran, suocero del signor
Villefort. Il signor di Saint-Méran abitava a Marsiglia, e per
conseguenza questa casa gli era inutile, così si diceva ch'era
stata appigionata ad una giovane vedova, che non si conosceva
sotto altro nome se non con quello di baronessa. Infatti una sera
che guardavo al di sopra del muro, vidi una donna giovane e bella
che girava sola per questo giardino, su cui non domina alcuna
finestra estranea, guardava spesso dalla parte della piccola
porta, e compresi che quella sera aspettava il signor Villefort.
Quando fu abbastanza vicina a me, nonostante l'oscurità, potei
distinguerne i lineamenti, e vidi una bella giovane di diciotto
diciannove anni, alta e bionda. Siccome era con una semplice
giubba, e niente poteva impedirmi dal vederne la corporatura,
m'accorsi ch'era incinta, e che la gravidanza era molto inoltrata.
Pochi momenti dopo fu aperta la piccola porta; entrò un uomo, la
giovane corse più che poté incontro a lui. Era Villefort. Calcolai
che, uscendo, particolarmente di notte, doveva traversare da solo
il giardino in tutta la sua lunghezza."
"Avete poi saputo il nome di questa donna?" domandò il conte.
"No, Eccellenza" rispose Bertuccio, "voi vedrete che non ebbi il
tempo d'informarmene."
"Continuate."
"Forse quella stessa sera avrei potuto uccidere il procuratore del
re" riprese Bertuccio, "ma non conoscevo ancora abbastanza il
giardino in tutti i suoi particolari. Temevo di non poter fuggire
se qualcuno fosse accorso alle grida. Rinviai l'azione al futuro
convegno; e perché nulla avesse a sfuggirmi, presi in affitto una
piccola camera che guardava il muro del giardino. Tre giorni dopo,
alle sette di sera, vidi un domestico uscire dalla casa a cavallo,
e prendere al galoppo la strada che porta a Sèvres: supposi che
sarebbe andato a Versailles, e non m'ingannai. Tre ore dopo,
ritornò l'uomo coperto di polvere. Dieci minuti dopo, un altr'uomo
a piedi, avvolto in un mantello, apriva la piccola porta del
giardino, e la rinchiudeva dietro a sé. Discesi rapidamente.
Quantunque non avessi veduto il viso di Villefort, lo riconobbi al
battito del mio cuore: traversai la strada, raggiunsi un
pilastrino posto all'angolo del muro, su cui ero salito per
guardare nel giardino la prima volta. Questa volta però non mi
contentai di guardare, cavai di tasca il coltello, mi assicurai
che la punta fosse ben affilata, e saltai al di sopra del muro. La
mia prima cura fu di correre alla porta; egli aveva lasciata la
chiave dentro la serratura dalla parte interna, avendo soltanto
preso la cautela di darvi un doppio giro. Niente dunque poteva
opporsi alla mia fuga da quel lato. Il giardino era di forma
bislunga, nel mezzo la terra era coperta da una folta e molle
erbetta ad uso dei giardini inglesi; agli angoli di questo prato
erano gruppi di alberi, con folti rami, allora frammischiati ai
fiori d'autunno. Per andare dalla piccola porta alla casa, tanto
entrando, quanto uscendo, Villefort era obbligato a passare
davanti a questi gruppi d'alberi.
Era la fine di settembre: il vento soffiava con forza; una luna
pallida e languente velata a tratti da grosse nuvole che
scorrevano per il cielo, rischiarava la sabbia dei viali che
conducevano alla casa, ma non poteva fendere l'oscurità di questi
alberi fronzuti, fra i quali un uomo poteva tenersi nascosto senza
timore di essere scoperto. Mi nascosi in quello, presso al quale
doveva passare Villefort. Mi ero appena nascosto, che, ai soffi
del vento che curvava i rami degli alberi mi parve distinguere dei
gemiti. Ma voi sapete, o per meglio dire, non sapete, signor
conte, che chi aspetta il momento di commettere un assassinio,
crede sempre di sentire delle strida sorde nell'aria.
Trascorsero due ore, nelle quali a più riprese credetti di sentire
i medesimi gemiti. Suonò mezzanotte. L'ultimo tocco vibrava ancora
cupo e sonoro, quando scoprii una debole luce illuminare le
finestre della scala segreta per la quale noi poco fa siamo
discesi. La porta si aprì, e comparve l'uomo dal mantello.
Quest'era il momento terribile; ma da molto tempo mi ero
preparato: cavai il coltello, lo aprii, e mi tenni pronto. L'uomo
del mantello veniva direttamente verso di me, e mi pareva tenesse
in mano un'arma: ebbi timore, non di una lotta, ma di non
riuscire.
Quando fu a pochi passi da me, capii che l'arma non era che una
vanga. Non avevo ancora potuto immaginare a quale scopo il signor
Villefort teneva una vanga in mano, quando egli si fermò accosto
al gruppo d'alberi, gettò uno sguardo intorno, e si mise a scavare
una fossa nella terra: allora m'accorsi che teneva qualche cosa
sotto il mantello, che depose sull'erba per essere più libero nei
suoi movimenti. Un po' di curiosità, lo confesso, si frammischiò
al mio odio, volli vedere ciò che era venuto a fare Villefort:
rimasi immobile, senza tirare il fiato, ed aspettai.
Quindi mi venne un terribile pensiero, che vidi confermarsi,
quando il procuratore del re cavò dal mantello una cassetta lunga
sei piedi e larga da sei a otto pollici. Lasciai che deponesse la
cassetta nella fossa che poi riempì di terra; su questa terra
smossa pestò i piedi per fare scomparire l'opera notturna.
Allora mi slanciai su lui, e gli conficcai il coltello nel petto,
dicendogli:
"Io sono Giovanni Bertuccio! La tua morte per mio fratello, il tuo
tesoro per la sua vedova: vedi bene che la mia vendetta è più
completa di quel che speravo!"
Non so se capì queste parole, ma credo di no. Cadde senza mandare
un gemito: sentii l'onda del suo sangue scorrermi ardente sulle
mani e sul viso, ma io ero ebbro, in delirio: questo sangue mi
rinfrescava invece di bruciarmi. In un secondo dissotterai la
cassetta colla vanga, poi, perché nessuno si accorgesse che
l'avevo portata via, riempii io pure la fossa, gettai la vanga al
di là del muro, e corsi fuori dalla porta, che chiusi a doppio
giro per di fuori, portando con me la chiave."
"Bene" disse Montecristo, "quest'era, a quanto vedo, un piccolo
assassinio complicato con furto."
"No, Eccellenza" rispose Bertuccio, "era una vendetta accompagnata
da una restituzione."
"E la somma almeno era forte?"
"Non era danaro."
"Ah, sì, ricordo" disse Montecristo: "non avete parlato di un
bambino?"
"Precisamente, Eccellenza. Corsi fino al fiume sedetti sulla
sponda, e incuriosito dal contenuto della cassetta, ne feci
saltare via la serratura col coltello. In un panno di tela batista
era avvolto un bambino appena nato: il viso era livido, le mani
violette rivelavano che era rimasto vittima di una asfissia
causata dalla cordicella che aveva avvolta intorno al collo.
Siccome però non era ancora freddo, esitai a gettarlo nell'acqua
che scorreva ai miei piedi; infatti dopo un momento mi parve di
sentire un leggero battito del cuore. Gli liberai il collo dal
cordone, e siccome ero stato infermiere all'ospedale di Bastia,
feci tutto ciò che avrebbe potuto fare un medico in simile
occasione, gli soffiai coraggiosamente dell'aria nei polmoni. Dopo
un quarto d'ora di sforzi inauditi, lo vidi respirare, e intesi un
grido sfuggirgli dal petto. Io pure gettai un grido, ma un grido
di gioia. "Dio dunque non mi maledice" dissi a me stesso, "se
permette che ridoni la vita ad una creatura umana in cambio della
vita che ho tolto ad un'altra!""
"E che faceste di quel bimbo?" domandò Montecristo. "Era un
bagaglio molto impacciante per uno che doveva fuggire."
"Per questo non ebbi l'idea di tenerlo... Ma sapevo che a Parigi
vi è un ospizio, ove sono accolte queste povere creature. Passando
per la barriera, dichiarai di aver trovato quel bimbo sulla
strada, e presi le mie informazioni. La cassetta accreditava la
mia versione; la biancheria di batista indicava che il bimbo
apparteneva a persone ricche. Non mi venne fatta alcuna obiezione,
mi fu indicato l'ospizio che era situato alla estremità della rue
Enfer, e, dopo aver presa la cautela di tagliare il pannolino in
due parti, in maniera che una delle lettere che lo marcava
continuasse ad avvolgere il fanciullo, mi riserbai l'altra, deposi
il fardello nella ruota, e fuggii a gambe levate.
Quindici giorni dopo ero di ritorno a Rogliano, e dicevo ad
Assunta: Consolati, sorella mia, Israele è morto, ma l'ho
vendicato!
Allora mi chiese la spiegazione di queste parole, e io le
raccontai tutto l'accaduto.
"Giovanni" mi disse Assunta, "avresti dovuto portarmi quel bimbo;
lo avremmo chiamato Benedetto: e per questa buona azione, Dio ci
avrebbe benedetti effettivamente!"
In risposta le consegnai la metà del pannolino che avevo
conservata, per poter reclamare il bimbo il giorno che fossimo
divenuti più ricchi."
"E con quali lettere era segnato questo pannolino?" domandò
Montecristo.
"Con una L ed una N sormontate dalla corona baronale."
"Credo, Dio me lo perdoni, che voi facciate uso di termini
araldici, Bertuccio! E dove avete fatti questi studi?"
"Al vostro servizio, signor conte, dove s'impara ogni cosa."
"Continuate, sono curioso di sapere altre due cose."
"E quali, signore?"
"Ciò che avvenne di questo ragazzo; non mi diceste che era un
maschio?"
"No, signore, non ricordo di avervi detto ciò."
"Ah, credevo... Mi sarò sbagliato."
"No, non vi siete sbagliato, perché effettivamente era un
maschio... Ma Vostra Eccellenza desiderava sapere due cose, qual è
la seconda?"
"La seconda è il delitto di cui foste accusato quando chiedeste un
confessore, e l'abate Busoni venne a vostra richiesta a ritrovarvi
nelle prigioni di Nimes."
"Questa storia sarà forse troppo lunga, Eccellenza."
"Che importa? Sono appena le dieci; sapete che non dormo, e
suppongo che non avrete gran voglia di dormire."
Bertuccio s'inchinò, e riprese la narrazione.
"Io, un po' per scacciare le tristi rimembranze che mi
assillavano, parte per provvedere ai bisogni della povera vedova,
mi rimisi al mestiere di contrabbandiere, divenuto più facile per
l'affievolimento delle leggi, che succede sempre alle rivoluzioni.
Le coste del mezzodì particolarmente erano mal custodite, a causa
delle continue sommosse ora in Avignone, ora a Nimes, ora ad Uzèf.
Noi approfittammo di questa specie di tregua che ci veniva
accordata dal governo per annodare relazioni su tutto il litorale.
Dopo l'assassinio di mio fratello nelle strade di Nimes, non avevo
voluto entrare in quella città. L'albergatore col quale noi
facevamo affari, vedendo che non volevamo più andar da lui, era
venuto da noi, ed aveva fissata una succursale al suo albergo,
sulla strada da Bellegard a Beaucaire, all'insegna del Ponte di
Gard.
In tal modo avevamo, sia dalla parte d'Aiguesmortes, sia a
Martigues, sia a Bouc, una dozzina di luoghi dove depositavamo le
nostre mercanzie, e dove al bisogno trovavamo un rifugio per
metterci in salvo dai doganieri e dai gendarmi. E' un mestiere che
frutta molto quello del contrabbandiere, quando uno ci si applica
con una certa intelligenza secondata da buona dose di vigoria.
Quanto a me, vivevo nelle montagne, avendo conservato un doppio
motivo di temere i gendarmi e i doganieri, poiché qualunque
comparsa davanti ad un giudice, poteva produrre un processo, vale
a dire una escursione nel passato, e si poteva scoprire qualche
cosa di più importante che non sigari di contrabbando, e barili
d'acquavite senza lasciapassare.
Così, preferendo mille volte la morte ad un arresto, conducevo a
buon fine operazioni straordinarie, e che, più di una volta, mi
convinsero che la troppa cura che ci prendiamo del nostro corpo, è
quasi sempre il solo ostacolo alla buona riuscita di quei disegni
che hanno bisogno di una risoluzione, e di una esecuzione vigorosa
e determinata. Infatti, una volta fatto il sacrificio della
propria vita, non si è più simili agli altri uomini, e chiunque ha
presa questa risoluzione, ha sentito centuplicarsi le forze ed
allargarsi l'orizzonte."
"Anche la filosofia! Bertuccio, voi dunque sapete un poco di tutto
nella vostra vita?"
"Oh, perdono, Eccellenza!"
"No, no, è solo perché la filosofia alle dieci e mezzo di sera è
ad ora troppo tarda. Fuori di questa non ho altra osservazione da
fare, visto che la trovo esatta, ciò che non si può dire di tutte
le filosofie."
"I miei viaggi divennero dunque sempre più estesi sempre più
fruttiferi. Assunta era l'economa; e la nostra fortuna andava
ingigantendosi. Un giorno ch'io partivo per un viaggio:
''Va''' disse lei. "Al tuo ritorno ti preparo una sorpresa."
L'interrogai inutilmente; non volle dirmi di più, ed io partii. Il
viaggio durò quasi sei settimane: eravamo stati a Lucca a caricare
dell'olio, ed a Livorno a prendere cotoni inglesi. Il nostro
sbarco si effettuò senza contrattempi, tirammo i nostri guadagni,
e ritornammo allegri e contenti. Rientrando a casa, la prima cosa
che vidi nel luogo più esposto della camera d'Assunta, in una cuna
sontuosa, relativamente al resto dell'appartamento, fu un
fanciullo di sette-otto mesi. Diedi un grido di gioia. Il solo
momento di tristezza che provai dopo l'uccisione del procuratore
del re, fu quello in cui abbandonai il bambino. Non ebbi mai
rimorsi per l'assassinio in se stesso.
La povera Assunta aveva indovinato tutto: approfittando della mia
assenza, munita della metà del pannolino ed avendo scritto, per
non dimenticarlo, il giorno e l'ora precisa in cui il bimbo era
stato deposto all ospizio, era andata a Parigi a reclamarlo. Non
le venne fatta alcuna obiezione, e le fu reso. Ah, vi confesso,
signor conte, che vedendo questa creatura dormire nella cuna, il
petto mi si gonfiò, e mi scorsero le lacrime.
"In verità, Assunta, sei un'ottima donna" le dissi, "ed il Signore
ti benedirà!"
"Ciò mostrava che tu avevi fede..." disse Montecristo.
"Ahimè! Eccellenza" rispose Bertuccio. "Iddio però fece strumento
della mia punizione questo stesso fanciullo. Mai si rivelò più
prematuramente una natura più perversa! E non si può dire che
venisse male allevato, poiché mia sorella lo trattava come il
figlio di un principe. Era un ragazzo di bellissimo aspetto, con
occhi celesti di quella tinta delle terraglie cinesi tanto bene in
armonia col bianco latteo del fondo; solamente i capelli di un
biondo troppo vivo, davano al suo viso una strana indole, che
raddoppiava la vivacità dello sguardo e la malizia del sorriso.
Digraziatamente un proverbio dice che i rossi sono buoni del tutto
o del tutto cattivi: il proverbio non mentiva sul conto di
Benedetto, che fin dalla prima infanzia si manifestò del tutto
cattivo. E' vero però che la dolcezza di sua madre radicò le sue
prime inclinazioni. Mia sorella andava continuamente al mercato
della città, a cinque leghe di distanza, per comprare i primi
frutti e i dolci più delicati per questo ragazzo, che preferiva
agli aranci di Palma ed alle conserve di Genova le castagne rubate
al vicino traversando le siepi, o le mele secche del granaio, pur
avendo a sua disposizione le castagne e le mele del nostro
orticello.
Un giorno (Benedetto poteva avere cinque o sei anni) il vicino
Basilio, che, secondo l'uso del nostro paese, non riponeva mai né
la sua borsa, né i suoi gioielli, perché il signor conte sa meglio
di qualunque altro che in Corsica non vi sono ladri, il vicino
Basilio si lamentò con noi che gli era sparito un luigi. Si pensò
che avesse contato male, ma egli pretendeva di esser sicuro del
fatto suo.
In tal giorno Benedetto aveva lasciata la casa di buon mattino, e
quando lo vedemmo tornare la sera, si trascinava dietro una
scimmia, che diceva di aver trovata colla catena legata ad un
albero; da più di un mese il cattivo ragazzo era voglioso di avere
una scimmia. Un saltimbanco ch'era passato per Rogliano, e che
aveva molti di questi animali che lo avevano divertito coi loro
esercizi, gli aveva, senza dubbio, ispirata questa malaugurata
fantasia.
"Nei nostri boschi non si trovano scimmie, e tanto meno
incatenate" gli dissi. "Confessami dunque come ti sei procurata
questa."
Benedetto sostenne la menzogna, e l'accompagnò con tali
particolari che facevano più onore alla sua immaginazione che alla
sua veracità. M'irritai, egli si mise a ridere; lo minacciai, fece
due passi indietro.
"Tu non puoi battermi" disse. "Non ne hai il diritto, perché non
sei mio padre. "
Noi ignorammo sempre chi gli aveva rivelato questo fatale segreto,
che per parte nostra era stato gelosamente custodito. Questa
risposta, per cui il ragazzo si faceva interamente conoscere,
quasi mi spaventò, ed il mio braccio alzato ricadde senza
percuotere il colpevole. Il ragazzo trionfò, e questa vittoria gli
dette un'audacia tale, che da quel giorno tutto il denaro
d'Assunta, il cui amore sembrava aumentare man mano che se ne
rendeva meno degno, fu speso in capricci che lei non sapeva
combattere, ed in follie che non aveva il coraggio d'impedire.
Quando io ero a Rogliano, le cose andavano meno male, ma quando
partivo, Benedetto diventava il capo di casa, e tutto andava alla
peggio.
All'età di dieci o undici anni tutti i suoi compagni erano scelti
fra i giovani di diciotto-venti anni e fra i più cattivi soggetti
di Bastia e di Corte, e già per qualche scappata, che meritava un
nome più serio, la giustizia ci aveva fatti chiamare. Io ne fui
spaventato: qualunque interrogatorio poteva avere conseguenze
funeste. Ero proprio allora obbligato ad allontanarmi dalla
Corsica per una spedizione importante. Vi riflettei lungamente, e
col presentimento d'evitare qualche disgrazia, decisi di condurre
con me Benedetto. Speravo che la vita attiva e faticosa del
contrabbandiere, la disciplina severa di bordo avrebbero corretto
questa indole vicina a corrompersi, se già non era spaventosamente
corrotta.
Presi dunque Benedetto a parte, e gli feci la proposta di
seguirmi, con tutte quelle promesse che possono sedurre un giovane
di dodici anni. Egli mi lasciò parlare fino alla fine, e
quand'ebbi terminato scoppiò in una risata, dicendo:
'Siete pazzo, zio mio!" (egli mi chiamava così quand'era di buon
umore). "Io cambiare la mia vita con quella che fate voi? Il mio
ottimo ed eccellente far niente, colle orribili fatiche che vi
siete imposto? Passare la notte al freddo, il giorno al caldo,
nascondersi continuamente, ricevere schioppettate, e tutto questo
per guadagnare un poco di denaro? Del denaro ne ho quanto voglio,
madre Assunta me ne dà quanto ne domando: sarei un imbecille se
accettassi la vostra proposta."
Io rimasi stupefatto da quell'audacia, e da quel ragionamento.
Benedetto ritornò a giocare coi suoi compagni, e lo vidi che mi
mostrava ad essi come un idiota."
"Grazioso fanciullo!" mormorò Montecristo.
"Ah, se fosse stato mio" rispose Bertuccio, "se fosse stato mio
figlio, o anche mio nipote, lo avrei ricondotto sul retto
sentiero, perché la coscienza da la forza. Ma l'idea di picchiare
un ragazzo, di cui avevo ucciso il padre, mi rendeva impossibile
ogni correzione. Detti buoni consigli a mia cognata, che nelle
nostre discussioni prendeva sempre la difesa del piccolo
disgraziato; e, siccome mi confessò che varie volte le erano
mancate somme considerevoli, le indicai un luogo dove nascondere
il nostro piccolo tesoro. In quanto a me, la mia risoluzione era
presa. Benedetto sapeva perfettamente leggere e fare i conti,
perché quando per caso voleva studiare, imparava in un giorno ciò
che gli altri in una settimana.
La mia risoluzione, dicevo, era presa: dovevo ingaggiarlo come
segretario sopra un bastimento a lungo corso, e, senza avvertirlo
di niente, farlo prendere un bel mattino, e trasportare a bordo;
in questo modo, raccomandandolo al capitano, tutto il suo avvenire
dipendeva da lui. Stabilito questo partii per la Francia. Tutte le
nostre operazioni dovevano questa volta eseguirsi nel golfo di
Lione, e si rendevano ogni giorno più difficili, perché eravamo
nel 1829. La tranquillità era perfettamente ristabilita, e per
conseguenza il servizio delle coste più severo che mai. Questa
sorveglianza era aumentata momentaneamente per la fiera di
Beaucaire che allora si apriva. Gli inizi della spedizione furono
eseguiti senza impaccio. Noi ancorammo la barca, che aveva un
doppio fondo nel quale nascondevamo le nostre mercanzie di
contrabbando, in mezzo ad una quantità di battelli che stavano
fitti alle due rive del Rodano da Beaucaire fino ad Alès.
Giunti là, cominciammo notte tempo a scaricare le merci proibite,
ed a farle passare in città per mezzo di gente in relazione cogli
albergatori nelle case dei quali facevamo i depositi. Sia che la
buona riuscita ci rendesse imprudenti, sia che fossimo stati
traditi, una sera verso le cinque pomeridiane mentre stavamo per
metterci a tavola, accorse tutto affannato il nostro piccolo
mozzo, dicendo che aveva veduto una squadra di doganieri dirigersi
dalla nostra parte. Non era precisamente la squadra che ci
spaventava. Da un momento all'altro, e particolarmente allora si
vedevano compagnie intere pattugliare e girare sulle sponde del
Rodano. Ma le cautele che, al dire del mozzo, questa squadra
prendeva per non essere veduta.
In un attimo eravamo in piedi; ma era già troppo tardi: la nostra
barca evidentemente oggetto delle loro ricerche, era circondata.
Fra i doganieri distinsi qualche gendarme; e tanto sospettoso di
questi, quanto indifferente alla vista di qualunque altro
militare, discesi sotto il ponte, e strisciando da un finestrello,
mi lasciai calare nel fiume, quindi mi misi a nuotare sott'acqua,
non respirando che a lunghi intervalli, tanto bene, che senza
esser veduto raggiunsi un canale nuovo che poneva il Rodano in
comunicazione col canale da Beaucaire ad Aiguesmortes. Una volta
là ero salvo, potevo proseguire senza essere visto in quella
direzione. Non era a caso, né senza premeditazione che avevo
seguito questa via; ho già parlato a Vostra Eccellenza, di un
albergatore di Nimes, che aveva impiantata una piccola osteria fra
Bellegarde e Beaucaire."
"Sì" disse Montecristo, "me ne ricordo perfettamente, questo degno
galantuomo, se non erro, era uno dei vostri associati..."
"Precisamente" rispose Bertuccio, "ma da sette otto anni aveva
ceduto il suo albergo ad un sarto di Marsiglia, che dopo essersi
rovinato con quel mestiere, aveva voluto tentare la sua fortuna in
un altro. Le corrispondenze che avevamo col primo proprietario
furono mantenute col secondo; dunque a quest'uomo contavo di
chiedere un asilo."
"E come si chiamava costui?" domandò il conte di Montecristo, che
sembrava cominciare a prendere qualche interesse al racconto di
Bertuccio.
"Si chiamava Gaspare Caderousse, ed era ammogliato con una donna
del villaggio di Carconta, che non conoscevamo per altro nome che
quello del suo villaggio; una povera donna colpita dalle febbri
maremmane, che moriva di languidezza. In quanto all'uomo era
gagliardo e robusto, dai quaranta ai cinquanta anni, e più d'una
volta in difficili situazioni aveva dato prova di prontezza
d'animo e di coraggio."
"E dicevate" domandò Montecristo, "che tali cose accadevano verso
l'anno?..."
"L'anno 1829, signor conte."
"In qual mese?"
"Nel mese di giugno."
"Al principio o alla fine?"
"Precisamente la sera del 3."
"Ah" fece Montecristo, "il 3 giugno 1829... Va bene, continuate."
"Era dunque a Caderousse, che contavo di domandare asilo; ma
secondo il solito, anche nelle occasioni ordinarie, non entravamo
da lui per la porta che dava sulla strada, e decisi di non
derogare alle abitudini: scavalcai la siepe del giardino, camminai
carpone fra gli ulivi e i fichi salvatici, e pervenni, nel dubbio
che Caderousse potesse avere qualche viaggiatore nell'albergo, ad
un soppalco nel quale avevo più di una volta passata la notte
tanto bene quanto nel miglior letto. Questo soppalco non era
diviso dalla sala comune del pianterreno dell'albergo che da un
tramezzo di assi, nel quale si erano praticate delle fenditure a
bella posta, perché di là potessimo spiare prima di palesarci.
Volevo capire se Caderousse era solo, dargli un segno del mio
arrivo, e terminare con lui il pasto interrotto dall'apparizione
dei doganieri; indi profittare del temporale in arrivo per
raggiungere le rive del Rodano, rendermi conto di ciò che era
accaduto alla barca ed a quelli che v'erano dentro. Calai dunque
nel soppalco, e fu fortuna, perché quasi nello stesso istante
Caderousse entrava in casa con uno sconosciuto. Mi tenni cheto, ed
aspettai, non coll'intenzione di scoprire i segreti
dell'albergatore, ma perché non potevo fare altrimenti; e d'altra
parte la stessa cosa era già accaduta altre volte.
L'uomo che accompagnava Caderousse era evidentemente forestiero al
mezzogiorno della Francia, uno di quei mercanti che vengono a
vendere i loro gioielli alla fiera di Beaucaire, e che in un mese
fanno affari per cinquanta ed anche centomila franchi. Caderousse
entrò vivacemente, e per il primo; quindi vedendo la sala vuota,
secondo il solito, e soltanto guardata dal cane, chiamò la moglie.
"Ehi! Carconta!" disse. "Quel degno uomo del prete, non ci ha
ingannati, il diamante è buono."
Si sentì un'esclamazione di gioia, e quasi subito la scala
scricchiolò sotto un passo appesantito dalla debolezza e dalla
malattia.
"Che dici?" domandò la donna più pallida di un morto.
"Dico che il diamante è buono, ed ecco qui il signore, che è uno
dei primi gioiellieri di Parigi, disposto a darci cinquantamila
franchi, solo che gli proviamo che è veramente nostro. Vuole che
gli racconti, come gli ho già raccontato io, in qual modo
miracoloso il diamante è caduto nelle nostre mani. Frattanto,
signore, sedetevi, se vi piace, e siccome la stagione è calda,
vado a cercare di che rinfrescarvi."
Il gioielliere esaminò con visibile attenzione l'interno
dell'albergo, e la miseria manifesta di coloro che stavano per
vendergli un diamante che sembrava uscito dallo scrigno di un re.
"Raccontate, signora" diss'egli, volendo senza dubbio profittare
dell'assenza del marito, perché non vi fosse alcun segno d'intesa
di costui, e controllare se i due racconti corrispondevano bene
uno coll'altro.
"Eh, mio Dio" disse la donna con volubilità, "è una benedizione
del cielo che non ci aspettavamo. Immaginate, caro signore, che
mio marito era in amicizia, fin dal 1814 1815, con un marinaio
chiamato Edmondo Dantès. Questo povero giovane non aveva
dimenticato Caderousse, che lo aveva obliato del tutto, e gli ha
lasciato morendo il diamante che avete veduto. "
"Ma in qual modo n'era divenuto possessore?" domandò il
gioielliere. "Lo aveva dunque prima d'entrare in prigione?''
"No, signore, ma in prigione fece conoscenza, a quanto pare, di un
inglese ricchissimo; e quando il suo compagno di cella si ammalò,
Dantès lo trattò come un fratello, così l'inglese uscendo dal
carcere lasciò al povero Dantès, che meno fortunato di lui era
morto in prigione, questo diamante, ch'egli a sua volta ci ha
lasciato in legato morendo, e che il degno abate ci ha rimesso
questa mattina."
"E' lo stesso racconto" mormorò il gioielliere, "e, in fin dei
conti, la storia può essere vera, per quanto paia inverosimile.
Non c'è dunque che il prezzo sul quale non siamo ancora
d'accordo."
"Come, non siamo d'accordo?" disse Caderousse. "Credevo che
avreste consentito al prezzo richiesto."
"Cioè" rispose il gioielliere, "al prezzo di quarantamila franchi
che vi ho offerti."
"Quarantamila franchi!" gridò la Carconta. "Non lo venderemo
certamente. L'abate ci ha detto che ne vale cinquantamila, senza
calcolare la legatura.
"E come si chiama quest'abate?" domandò l'instancabile
interlocutore.
"L'abate Busoni" rispose la donna.
"E' dunque uno straniero?"
"Credo sia un italiano delle vicinanze di Mantova."
"Mostratemi questo diamante" riprese il gioielliere, "che lo
riveda una seconda volta; spesso si giudicano male le pietre a
prima vista."
Caderousse cavò di tasca un piccolo astuccio di marocchino nero,
l'aprì e lo passò al gioielliere.
Alla vista di questo diamante grosso quanto una piccola nocciola,
me lo ricordo come lo vedessi ancora, gli occhi della Carconta
sfavillarono di cupidigia."
"E che pensavate di tutto ciò, signor ascoltatore alle porte?"
domandò Montecristo. "Prestavate fede a quella favola?"
"Sì, Eccellenza; non ritenevo Caderousse un uomo cattivo, e lo
credevo incapace di aver commesso un delitto, od anche un furto."
"Questo fa più onore al vostro cuore che alla vostra esperienza,
Bertuccio. Avevate conosciuto questo Edmondo Dantès di cui si
parlava?"
"No, Eccellenza, fino allora non ne avevo mai sentito parlare, e
dopo nemmeno, tranne una sola volta dallo stesso abate Busoni,
quando lo vidi nelle prigioni di Nimes."
"Bene, continuate."
"Il gioielliere prese l'anello dalle mani di Caderousse, cavò di
tasca un paio di piccole pinzette d'acciaio, e un bilancino di
rame; poi allontanando le punte d'oro che ritenevano la pietra
nell'anello fece uscire il diamante dal suo alveolo, e lo pesò
scrupolosamente sul bilancino.
"Giungerò fino a quarantacinquemila franchi" disse, "ma non darò
un soldo di più. Siccome questo è il vero prezzo dell'anello, non
ho preso con me che questa somma.
"Oh, per questo, tornerò con voi a Beaucaire per prendere gli
altri cinquemila franchi."
"No" disse il gioielliere restituendo a Caderousse l'anello e il
diamante, "questo non vale di più; e sono anzi dolente di avervi
offerta questa somma, dato che la pietra ha un difetto che non
avevo visto prima; ma non importa: io non ho che una parola, ho
detto quarantacinquemila franchi e non mi ritiro."
"Almeno rimettete il diamante nell'anello" disse con asprezza la
Carconta.
Egli ritornò ad incassare la pietra.
"Bene bene, bene" disse Caderousse, rimettendosi in tasca
l'astuccio. "Si venderà ad un altro."
''Sì" rispose il gioielliere, "ma un altro non sarà così
compiacente come me; un altro non si contenterà delle informazioni
che mi avete date. Non è cosa naturale che un uomo come voi
possegga un anello di cinquantamila franchi, informerò i
magistrati, e bisognerà ritrovare l'abate Busoni; e gli abati che
regalano diamanti da duemila luigi, sono rari. La giustizia
comincerà col mettervi le mani addosso, sarete messo in prigione,
e se riconosciuto innocente verrete messo in libertà dopo tre o
quattro mesi di prigionia; l'anello o si sarà perduto in spese di
giudizio, o vi sarà restituito con una pietra falsa che costerà
tre franchi invece di cinquantamila, e voglio anche ammettere
cinquantacinquemila... Ma voi converrete con me, mio brav'uomo, si
corrono sempre certi rischi a comprare."
Caderousse e sua moglie s'interrogarono con uno sguardo.
"No" disse Caderousse, "non siamo abbastanza ricchi per perdere
cinquemila franchi."
"Come volete, mio caro amico... Io però avevo portato, come
vedete, bella moneta."
E con una mano cavò di tasca un pugno d'oro che fece risplendere
davanti agli occhi abbagliati degli albergatori, e con l'altra un
pacchetto di biglietti di banca.
L'animo di Caderousse era agitato visibilmente da una interna
lotta era evidente che quel piccolo astuccio di marocchino, che
girava e rigirava nelle sue mani, non gli sembrava corrispondere,
come valore alla somma enorme che gli affascinava gli occhi.
Egli si volse a sua moglie.
"Che dici tu?" le domandò a bassa voce.
"Daglielo, daglielo" disse. "Se ritorna a Beaucaire senza il
diamante, ci denunzierà, e come ha detto, chi sa se potremo più
ritrovare l'abate Busoni!"
"Ebbene, sia così" disse Caderousse: "prendete il diamante per
quarantacinquemila franchi, ma mia moglie vuole una catena d'oro,
ed un paio di orecchini d'argento."
Il gioielliere cavò di tasca una scatola lunga e piatta che
conteneva molti campioni degli oggetti domandati:
"Prendete" disse. "Io sono generoso negli affari. Scegliete..."
La donna scelse una collana d'oro che poteva costare cinque luigi,
ed il marito un paio di orecchini del valore di quindici franchi.
"Spero che non vi lamenterete?" disse il gioielliere.
"L'abate aveva detto che costava cinquantamila franchi" mormorò
Caderousse.
"Andiamo, andiamo, date qua... Che uomo terribile!" disse il
gioielliere togliendogli di mano il diamante. "Io vi sborso
quarantacinquemila franchi: duemilacinquecento franchi di rendita,
vale a dire una fortuna come vorrei averla io, e non siete
contento."
"Ed i quarantacinquemila franchi" domandò Caderousse con voce
rauca, "vediamo, dove sono?"
"Eccoli" disse il gioielliere. E contò sulla tavola quindicimila
franchi in oro, e trentamila in biglietti di banca.
"Aspettate che accenda una lucerna" disse Carconta. "Non ci si
vede più, e si potrebbe sbagliare."
Infatti durante questa discussione era sopraggiunta la notte, e
colla notte l'uragano che minacciava da più di una mezz'ora. Si
sentiva di lontano rumoreggiare sordamente il tuono; ma né il
gioielliere, né Carconta, né Caderousse sembravano occuparsene,
tanto tutti e tre erano presi dal demonio del guadagno.
Io stesso provai una strana affascinazione alla vista di
quell'oro, e di quel biglietti. Mi sembrava di fare un sogno, e
come succede nei sogni, mi sentivo inchiodato al mio posto.
Caderousse contò e ricontò l'oro e i biglietti; quindi li passò
alla moglie, che li contò e ricontò anche lei. Intanto il
gioielliere faceva specchiare il lume sul diamante, che faceva
luccicare lampi da far dimenticare quelli ch'erano precursori
dell'uragano, e che già cominciavano ad infiammare le finestre.
"Ebbene siete soddisfatti?" domandò il gioielliere.
"Sì" disse Caderousse. "Dammi il portafogli, e trovami un
sacchetto, Carconta."
Carconta aprì un armadio, e ritornò portando un vecchio portafogli
di cuoio, dal quale furono tolte alcune lettere sudice, e vi
furono messi i biglietti, ed un sacchetto nel quale erano
racchiusi due o tre scudi da sei lire, che probabilmente formavano
tutta la fortuna della miserabile famiglia.
"Eh" disse Caderousse, "quantunque mi abbiate alleggerito forse di
un diecimila franchi volete cenare con noi? Ve l'offro di buon
cuore."
"Grazie" disse il gioielliere, "deve essersi fatto tardi, e
bisogna che ritorni a Beaucaire, perché mia moglie sarebbe in
pena." E cavò l'orologio. "Per Bacco!" gridò. "Sono quasi le nove.
Non sarò a Beaucaire prima della mezzanotte. Addio amici miei...
Se per caso ritornassero degli abati Busoni, pensate a me."
"Fra dieci giorni non sarete più a Beaucaire" disse Caderousse,
"poiché la fiera finisce la settimana ventura."
"Questo non importa; scrivetemi a Parigi, signor Giovanni, Palazzo
Reale, Galleria delle Pietre, numero 45. Farò il viaggio
espressamente, se ne vale la pena."
Uno scroscio di fulmine rintronò, accompagnato da un lampo così
vivo, che tolse quasi il chiarore della lucerna.
"Oh, oh" disse Caderousse, "e volete partire con questo tempo?"
"Oh, non ho paura del tuono" disse il gioielliere.
"E dei ladri?" domandò Carconta. "La strada non è mai molto sicura
in tempo di fiera."
"Oh, quanto ai ladri, ecco ciò che tengo per loro..."
E cavò di tasca un paio di piccole pistole cariche fino alla
bocca.