un  giardino  inglese,  mal  custodito,  ne  convengo,  ma che non

      pertanto bisogna calunniare."

      "Signore, non rimanete là, ve ne supplico!"

      "Io credo che  siate  un  po'  matto,  compare  Bertuccio!"  disse

      freddamente  il  conte.   "Se  è  così,   ditemelo,  che  vi  farò

      rinchiudere in qualche casa  di  salute,  prima  che  succeda  una

      disgrazia."

      "Ahimè,   Eccellenza"  disse  Bertuccio,  scuotendo  la  testa,  e

      piegando le mani in un'attitudine  che  avrebbe  fatto  ridere  il

      conte,  se  ben altri pensieri non lo avessero preoccupato in quel

      momento,  e reso molto attento alle più piccole manifestazioni  di

      quella coscienza timorosa. "Ahimè, la disgrazia è accaduta!"

      "Bertuccio"   disse   il  conte,   "devo  dirvi  che  gesticolate,

      contorcete le braccia e stralunate gli occhi come un ossesso,  dal

      cui  corpo il diavolo non voglia uscire.  Ora ho sempre notato che

      il diavolo più ostinato ad  uscire  è  un  qualsiasi  segreto.  Vi

      sapevo  corso,  vi  stimavo  taciturno,  ruminando  sempre qualche

      storia di vendetta, e vi perdonavo questo in Italia, sebbene anche

      in Italia questa specie di cose  non  siano  trascurabili;  ma  in

      Francia si giudica l'assassinio una pessima cosa; vi sono gendarmi

      che  se  ne occupano,  giudici che lo condannano,  patiboli che lo

      vendicano."

      Bertuccio congiunse le mani, e, siccome non lasciava il fanale, la

      luce venne a rischiarargli il viso sconvolto.

      Montecristo per un momento lo esaminò, come a Roma aveva osservato

      il supplizio di Andrea.  Quindi con  un  tono  di  voce  che  fece

      scorrere un brivido per il corpo del povero intendente:

      "L'abate  Busoni mi ha dunque ingannato" disse,  "quando,  dopo il

      suo viaggio in Francia nel 1829,  v'inviò  a  me,  munito  di  una

      lettera  di  raccomandazione,  nella  quale  mi  lodava  le vostre

      preziose qualità. Ebbene, scriverò all'abate, gli chiederò del suo

      protetto,  ed allora saprò senza dubbio che cosa  è  tutto  questo

      affare di assassinio.  Vi prevengo soltanto,  Bertuccio che quando

      io vivo in un paese,  ho l'abitudine d'uniformarmi alle sue leggi,

      e  che  non ho alcuna volontà d'intrigarmi per voi colla giustizia

      in Francia."

      "Non fate questo,  Eccellenza...  Vi ho servito fedelmente,  non è

      vero?" gridò Bertuccio disperato. "Sono stato un galantuomo, e per

      quanto ho potuto, ho fatto delle buone azioni."

      "Non  dico  di no" rispose il conte,  "ma perché diavolo siete ora

      agitato in tal modo?  Questo è un cattivo segno...  Una  coscienza

      pura non porta tanto pallore sulle guance, tanta febbre nelle mani

      di un uomo."

      "Ma,  signor conte" interruppe Bertuccio,  "non mi avete detto voi

      stesso che l'abate Busoni,  che fu  quello  che  raccolse  la  mia

      confessione nelle carceri di Nimes, vi aveva avvertito, inviandomi

      a voi, che io avevo un rimorso nella coscienza?"

      "Sì,  ma  siccome vi raccomandava dicendomi che avrei ritrovato in

      voi un eccellente intendente, credetti che voi aveste rubato, ecco

      tutto."

      "Oh, signor conte!" fece Bertuccio con dolore.

      "Ovvero che,  essendo voi corso,  non avevate potuto resistere  al

      desiderio  di far la pelle a qualcuno,  come vien detto nel vostro

      paese..."

      "Ebbene, sì, mio signore,  sì,  mio buon signore,  è questo" gridò

      Bertuccio,  gettandosi  alle  ginocchia  del  conte,  "sì,  fu una

      vendetta, lo giuro, una semplice vendetta!"

      "Capisco,  ma ciò che non capisco è come questa casa vi ecciti  in

      tal modo."

      "Eppure  la cosa è naturale,  poiché fu appunto in questa casa che

      si compì la vendetta."

      "Che, in casa mia?"

      "Oh,  signore,  non era  ancora  vostra..."  obiettò  ingenuamente

      Bertuccio.

      "Ma di chi era dunque?"

      "Del  signor  marchese  di  Saint-Méran,  ci ha detto,  credo,  il

      portinaio."

      "Che diavolo dunque avevate da vendicarvi del marchese  di  Saint-

      Méran?"

      "Ah, non fu di lui, signore, fu di un altro."

      "Ecco una strana combinazione" disse Montecristo, sembrando cedere

      alle sue riflessioni,  "voi vi trovate in tal modo per caso, senza

      alcun preparativo, in una casa dove è accaduta una scena che vi dà

      tanti terribili rimorsi."

      "Signore" disse l'intendente, "pare che sia una specie di fatalità

      a muovere tutto questo,  ne sono  ben  sicuro...  Per  prima  cosa

      comprate una casa in Auteuil,  e questa casa è precisamente quella

      dove ho commesso l'assassinio; poi scendete nel giardino, e giusto

      per la scala per cui egli discese,  e vi fermate proprio nel luogo

      ov'egli  ricevette il colpo,  e a due passi da quest'albero era la

      fossa dove egli aveva seppellito il bambino:  tutto  ciò  non  può

      essere opera del caso."

      "Ebbene,  vediamo,  signor  corso,  io  suppongo  sempre  tutto...

      D'altra parte bisogna saper fare delle  concessioni  agli  spiriti

      ammalati.  Vediamo:  richiamate il vostro buonsenso e raccontatemi

      tutto."

      "Io non l'ho raccontato che una  sola  volta,  signore,  all'abate

      Busoni.  Simili cose" disse Bertuccio scuotendo la testa,  "non si

      raccontano che sotto il suggello della confessione."

      "Allora,  mio caro Bertuccio,  riterrete giusto che vi rimandi  al

      vostro  confessore;  vi  farete con lui certosino o bernardino,  e

      ragionerete sui vostri segreti.  Ma  io  ho  paura  di  un  ospite

      spaventato  da  simili  fantasmi;  non  amo  che  le mie genti non

      abbiano il coraggio di passare di notte per il giardino. Poi ve lo

      confesso,  mi piacerebbe poco qualche visita  del  commissario  di

      polizia; poiché, intendete bene, Bertuccio, si dice che in qualche

      luogo  la  polizia  venga  pagata perché taccia,  ma in Francia al

      contrario si  paga  quando  parla.  Perdinci,  vi  credevo  corso,

      contrabbandiere,  e  bravo  intendente,  ma ora m'avvedo che avete

      ancora altre corde al vostro arco. Voi perciò non siete più al mio

      servizio, Bertuccio."

      "Ah, signore,  signore!" gridò l'intendente colpito dal terrore di

      questa  minaccia.  "Se non dipende che da questo perché io rimanga

      al vostro servizio,  parlerò,  dirò tutto;  e se vi  lascio,  sarà

      soltanto per andare al patibolo!"

      "Adesso andiamo meglio" disse Montecristo,  "ma se voleste mentire

      riflettete bene, non parlate affatto."

      "No,  signore,  ve lo giuro sulla salute dell'anima mia,  vi  dirò

      tutto...  Lo  stesso  abate Busoni non ha saputo che una parte del

      segreto.  Ma  prima  ve  ne  supplico,   allontanatevi  da  questo

      platano...  Osservate, la luna va a rischiarare quella nube, e là,

      in quella posizione,  avvolto in quel mantello che mi nasconde  la

      vostra   corporatura,   e   che   somiglia  a  quella  del  signor

      Villefort..."

      "Come?" gridò Montecristo. "Fu Villefort...?"

      "Vostra Eccellenza lo conosce?"

      "Sì."

      "Quello che sposò la figlia del marchese di Saint-Méran."

      "Sì, e che negli uffici godeva la reputazione del più onesto uomo,

      del più severo e del più rigido magistrato?"

      "Ebbene signore"  gridò  Bertuccio,  "quest'uomo  d'irreprensibile

      reputazione..."

      "Ebbene?"

      "Era un infame!"

      "Evvia" disse Montecristo, "è impossibile!"

      "Eppure è come vi dico."

      "Veramente?" disse Montecristo. "E ne avete le prove?"

      "Le avevo, almeno."

      "E le avete perdute, malaccorto?"

      "Sì, ma cercando bene si possono ritrovare."

      "Davvero?" disse il conte. "Raccontatemi ciò, Bertuccio, perché la

      cosa incomincia ad interessarmi davvero."

      E  il  conte,  canterellando una piccola aria della Lucia,  andò a

      sedersi in una panca,  mentre Bertuccio lo seguiva concentrando la

      sua memoria, restando in piedi davanti a lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 43.

                                 LA VENDETTA.

 

 

      "Da  dove  desiderate,  signor  conte,  che  cominci il racconto?"

      domandò Bertuccio.

      "Da  dove  volete"  disse  Montecristo,   "giacché   non   ne   so

      assolutamente  niente."  "Credevo che Vostra Eccellenza avesse già

      saputo che..."

      "Sì,  qualche particolare senza dubbio;  ma sono passati  sette  o

      otto anni, e nulla più mi ricordo."

      "Allora posso, senza tema d'annoiare Vostra Eccellenza..."

      "Raccontate pure, mi farete le veci di un giornale."

      "Le cose rimontano al 1815."

      "Ah, ah" fece Montecristo, "il 1815 non fu ieri."

      "No,  signore,  tuttavia  i  più piccoli particolari sono presenti

      come fosse oggi. Io avevo un fratello maggiore che era al servizio

      dell'Imperatore.  Era sottotenente in un reggimento composto tutto

      di  corsi.  Era  anche  il  mio  unico amico,  noi eravamo rimasti

      orfani: egli a diciotto,  io a cinque anni;  e mi  aveva  allevato

      come fossi stato suo figlio. Si ammogliò nel 1814 sotto i Borboni;

      ma  quando  l'Imperatore  ritornò dall'isola d'Elba,  mio fratello

      riprese subito servizio;  poi ferito leggermente  a  Waterloo,  si

      ritirò coll'esercito dietro la Loira."

      "Ma questa è la storia dei cento giorni, Bertuccio, ed è già stata

      fatta, se non sbaglio"

      "Scusate,  Eccellenza, ma questi primi particolari sono necessari,

      e voi mi avete promesso d'esser paziente."

      "Avanti, avanti! Non dirò più una parola."

      "Un giorno ricevemmo una lettera...  Bisogna dirvi  che  abitavamo

      nel piccolo villaggio di Rogliano, all'estremità del capo Corso...

      Era  di  mio  fratello,  il  quale diceva che l'esercito era stato

      sciolto e lui ritornava  per  la  via  di  Chateauroux,  Clermont-

      Ferrand,  le Puy e Nimes,  e che se avevo denaro glielo inviassi a

      Nimes presso un albergatore di nostra conoscenza..."

      "Contrabbandiere" interruppe il conte.

      "Eh, mio Dio, bisogna bene che tutti vivano."

      "Certamente, continuate dunque."

      "Io amavo teneramente mio fratello, ve l'ho detto,  per cui decisi

      di  non  inviargli  il  denaro,  ma  di  portarglielo  io  stesso.

      Possedevo un  migliaio  di  franchi;  ne  lasciai  cinquecento  ad

      Assunta,  mia  cognata,  presi  gli altri cinquecento e mi misi in

      viaggio per Nimes...  Era cosa facile,  avevo  la  mia  barca,  un

      carico da fare per mare: tutto secondava il mio disegno. Ma, fatto

      il  carico,  il vento divenne contrario,  di modo che stemmo tre o

      quattro giorni senza potere  entrare  nel  Rodano.  Finalmente  vi

      riuscimmo:  risaliti fino ad Arles lasciai la barca fra Bellegarde

      e Beaucaire,  e presi la via di  Nimes;  erano  i  giorni  in  cui

      accadeva  il  famoso massacro del mezzogiorno.  Due o tre briganti

      chiamati Trestaillon, Truphemy e Graffan,  scannavano sulle strade

      tutti  quelli  che credevano bonapartisti.  Senza dubbio il signor

      conte avrà inteso parlare di questi assassini."

      "Sì, ma vagamente; allora ero lontano dalla Francia."

      "Entrando a Nimes  si  camminava,  alla  lettera,  nel  sangue;  a

      ciascun passo s'incontravano cadaveri: gli assassini,  ordinati in

      bande, uccidevano, saccheggiavano, bruciavano. Alla vista di tanta

      carneficina,  mi prese  un  tremito,  non  per  me,  io,  semplice

      pescatore   corso,   non   avevo   da   temere,   anzi   per   noi

      contrabbandieri,  quelli erano tempi buoni,  ma per mio  fratello,

      soldato dell'impero, che ritornava dall'esercito della Loira colla

      sua  uniforme,  le  spalline,  c'era tutto da temere...  Corsi dal

      nostro albergatore, i miei presentimenti non mi avevano ingannato:

      mio fratello giunto il giorno innanzi a Nimes,  alla stessa  porta

      di  quello cui andava a chiedere ospitalità era stato assassinato.

      Feci il possibile per riconoscere gli  uccisori,  ma  nessuno  osò

      dirmi  i  loro  nomi,  tanto  erano  temuti.  Pensai  allora  alla

      giustizia francese, di cui tanto mi era stato parlato, e che nulla

      teme, e mi presentai al procuratore del re."

      "E questo  procuratore  del  re  si  chiamava  Villefort?"  chiese

      negligentemente Montecristo.

      "Sì,  Eccellenza, veniva da Marsiglia dove era stato sostituto. Il

      suo zelo gli aveva procurato  l'avanzamento.  Era  stato  uno  dei

      primi,  si  diceva,  che  avevano  annunziato al governo lo sbarco

      dall'isola d'Elba."

      "Dunque" riprese Montecristo, "vi presentaste a lui?"

      "Signore" gli dissi,  "mio fratello è stato assassinato ieri nelle

      strade di Nimes,  non so da chi,  ma è vostro compito saperlo. Voi

      siete qui  il  capo  della  giustizia,  e  spetta  alla  giustizia

      vendicare quelli che non ha saputo difendere."

      "E che cos'era vostro fratello?" domandò il procuratore del re.

      "Sottotenente nel battaglione corso."

      "Un soldato dell'imperatore allora..."

      "Un soldato dell'esercito francese."

      "Ebbene" replicò, "si è servito della spada, ed è morto di spada."

      "Voi v'ingannate, signore, egli perì sotto il pugnale."

      "E che volete che faccia?" risponde il magistrato.

      "Ve l'ho già detto, voglio che lo vendichiate."

      "E di chi?"

      "Dei suoi assassini."

      "E che, li conosco io?"

      "Fateli cercare."

      "Per farne che?  Vostro fratello avrà avuto qualche contesa,  e si

      sarà battuto in duello.  Tutti questi  vecchi  soldati  cadono  in

      eccessi,  che riuscivano bene sotto l'impero,  ma che ora riescono

      male;  adesso le nostre genti  del  mezzogiorno  non  amano   i

      soldati, né gli eccessi."

      "Siccome  non  è  per  me  che  vi  prego.   Io  piangerei,  o  mi

      vendicherei,  ecco tutto;  ma il mio  povero  fratello  aveva  una

      moglie.  Se accadesse anche a me qualche disgrazia,  povera donna,

      morirebbe di fame, perché il solo lavoro di mio fratello la faceva

      vivere. Ottenete per lei una piccola pensione del governo."

      "Ciascuna rivoluzione ha la  sua  catastrofe;  vostro  fratello  è

      rimasto  vittima di questa,  è una disgrazia;  ma il governo nulla

      deve per ciò alla vostra famiglia. Se dovessimo giudicare tutte le

      vendette che i partigiani si sono prese su quelli del  re,  quando

      avevano il potere, vostro fratello oggi forse sarebbe condannato a

      morte.   Ciò  che  accade  è  naturale,   perché  è  la  legge  di

      rappresaglia."

      "E che signore!" gridai io.  "E' mai possibile che parliate  così,

      voi magistrato...?!"

      "Tutti questi corsi sono pazzi" rispose Villefort. "Credono ancora

      che  il  loro  compatriota  sia  imperatore.  Voi sbagliate epoca,

      dovevate venirmi a dir questo due mesi fa: oggi  è  troppo  tardi.

      Andatevene dunque, e se non volete andare, vi farò buttar fuori."

      Lo guardai un momento per vedere se,  con una nuova preghiera,  vi

      fosse stata qualche cosa da sperare. Quest'uomo era di pietra.  Mi

      avvicinai a lui.

      "Ebbene"  gli  dissi a mezza voce,  "poiché conoscete tanto bene i

      corsi dovete sapere in qual modo essi mantengono la  loro  parola.

      Voi trovate che hanno fatto bene ad uccidere mio fratello, che era

      bonapartista,   perché  voi  siete  regio;   ebbene  io  che  sono

      ugualmente bonapartista,  vi dichiaro una cosa,  che vi ammazzerò!

      Da questo momento vi dichiaro vendetta;  per cui cautelatevi bene,

      e guardatevi come meglio potrete;  poiché la prima  volta  che  ci

      ritroveremo  faccia  a  faccia,  sarà  segno che è giunta l'ultima

      vostra ora."

      Dopo ciò,  prima ancor che si fosse rimesso dalla sorpresa,  aprii

      la porta e fuggii."

      "Oh,  oh"  disse Montecristo,  "colla vostra onesta figura fate di

      queste cose,  Bertuccio,  ed anche ad un procuratore  del  re?  Va

      bene! Ma sapeva almeno ciò che voleva dire la parola vendetta?"

      "Lo sapeva tanto bene,  che da quel giorno non uscì più solo, e si

      chiuse in casa, facendomi cercare dappertutto.  Fortunatamente ero

      tanto ben nascosto,  che non poté trovarmi.  Allora fu preso dalla

      paura,  tremò di restare più lungamente  a  Nimes:  sollecitò  una

      permuta  di  residenza e siccome era realmente persona d'influenza

      si fece nominare a Versailles.  Ma,  voi lo sapete,  non  vi  sono

      distanze per un corso che ha giurato di vendicarsi del suo nemico,

      e  la  sua  carrozza,  per quanto fosse bene condotta,  non ha mai

      avuto più di una mezza giornata di vantaggio  su  me,  sebbene  lo

      seguissi a piedi. L'importante non era d'ucciderlo, cento volte ne

      avrei trovato l'occasione,  ma di ucciderlo senza essere scoperto,

      e particolarmente  senza  essere  arrestato.  Ormai  non  ero  più

      indipendente,  avevo  da proteggere e da nutrire mia cognata.  Per

      tre mesi lo appostai: e  per  tre  mesi  non  fece  un  passo,  un

      movimento,  una  passeggiata  senza  che  il  mio  sguardo  non lo

      seguisse   ovunque   andava.   Finalmente   scoprii   che   veniva

      misteriosamente ad Auteuil: lo seguii, e lo vidi entrare in questa

      casa  ove siamo;  soltanto,  invece d'entrare,  come tutti,  dalla

      porta grande della strada, egli veniva o a cavallo, o in carrozza,

      e lasciando il cavallo o  la  carrozza  all'albergo,  entrava  per

      quella piccola porta che vedete là."

      Montecristo  fece  colla  testa  un segno che provava che malgrado

      l'oscurità, distingueva l'entrata indicata da Bertuccio.

      "Io non ero più necessario a Versailles, mi stabilii ad Auteuil, e

      presi le mie misure. Se volevo prenderlo era evidentemente qui che

      dovevo tendere il laccio.  La casa apparteneva,  come il portinaio

      ha  detto,  al signor marchese di Saint-Méran,  suocero del signor

      Villefort.  Il signor di Saint-Méran abitava a  Marsiglia,  e  per

      conseguenza  questa  casa  gli era inutile,  così si diceva ch'era

      stata appigionata ad una giovane  vedova,  che  non  si  conosceva

      sotto altro nome se non con quello di baronessa.  Infatti una sera

      che guardavo al di sopra del muro,  vidi una donna giovane e bella

      che  girava  sola  per  questo giardino,  su cui non domina alcuna

      finestra estranea,  guardava  spesso  dalla  parte  della  piccola

      porta, e compresi che quella sera aspettava il signor Villefort.

      Quando  fu  abbastanza vicina a me,  nonostante l'oscurità,  potei

      distinguerne i lineamenti,  e vidi una bella giovane  di  diciotto

      diciannove  anni,  alta  e  bionda.  Siccome  era con una semplice

      giubba,  e niente poteva impedirmi  dal  vederne  la  corporatura,

      m'accorsi ch'era incinta, e che la gravidanza era molto inoltrata.

      Pochi momenti dopo fu aperta la piccola porta;  entrò un uomo,  la

      giovane corse più che poté incontro a lui. Era Villefort. Calcolai

      che, uscendo, particolarmente di notte,  doveva traversare da solo

      il giardino in tutta la sua lunghezza."

      "Avete poi saputo il nome di questa donna?" domandò il conte.

      "No,  Eccellenza" rispose Bertuccio,  "voi vedrete che non ebbi il

      tempo d'informarmene."

      "Continuate."

      "Forse quella stessa sera avrei potuto uccidere il procuratore del

      re" riprese Bertuccio,  "ma non  conoscevo  ancora  abbastanza  il

      giardino in tutti i suoi particolari.  Temevo di non poter fuggire

      se qualcuno fosse accorso alle grida.  Rinviai l'azione al  futuro

      convegno;  e perché nulla avesse a sfuggirmi, presi in affitto una

      piccola camera che guardava il muro del giardino. Tre giorni dopo,

      alle sette di sera, vidi un domestico uscire dalla casa a cavallo,

      e prendere al galoppo la strada che porta a  Sèvres:  supposi  che

      sarebbe  andato  a  Versailles,  e  non m'ingannai.  Tre ore dopo,

      ritornò l'uomo coperto di polvere. Dieci minuti dopo, un altr'uomo

      a piedi,  avvolto in un mantello,  apriva  la  piccola  porta  del

      giardino, e la rinchiudeva dietro a sé. Discesi rapidamente.

      Quantunque non avessi veduto il viso di Villefort, lo riconobbi al

      battito   del  mio  cuore:  traversai  la  strada,   raggiunsi  un

      pilastrino posto all'angolo  del  muro,  su  cui  ero  salito  per

      guardare  nel  giardino  la prima volta.  Questa volta però non mi

      contentai di guardare,  cavai di tasca il coltello,  mi  assicurai

      che la punta fosse ben affilata, e saltai al di sopra del muro. La

      mia  prima  cura fu di correre alla porta;  egli aveva lasciata la

      chiave dentro la serratura dalla parte  interna,  avendo  soltanto

      preso  la  cautela  di darvi un doppio giro.  Niente dunque poteva

      opporsi alla mia fuga da quel  lato.  Il  giardino  era  di  forma

      bislunga,  nel  mezzo  la  terra  era coperta da una folta e molle

      erbetta ad uso dei giardini inglesi;  agli angoli di questo  prato

      erano  gruppi di alberi,  con folti rami,  allora frammischiati ai

      fiori d'autunno.  Per andare dalla piccola porta alla casa,  tanto

      entrando,  quanto  uscendo,  Villefort  era  obbligato  a  passare

      davanti a questi gruppi d'alberi.

      Era la fine di settembre: il vento soffiava con  forza;  una  luna

      pallida   e  languente  velata  a  tratti  da  grosse  nuvole  che

      scorrevano per il cielo,  rischiarava  la  sabbia  dei  viali  che

      conducevano alla casa,  ma non poteva fendere l'oscurità di questi

      alberi fronzuti, fra i quali un uomo poteva tenersi nascosto senza

      timore di essere scoperto.  Mi nascosi in quello,  presso al quale

      doveva passare Villefort.  Mi ero appena nascosto,  che,  ai soffi

      del vento che curvava i rami degli alberi mi parve distinguere dei

      gemiti.  Ma voi sapete,  o per meglio  dire,  non  sapete,  signor

      conte,  che  chi  aspetta  il momento di commettere un assassinio,

      crede sempre di sentire delle strida sorde nell'aria.

      Trascorsero due ore, nelle quali a più riprese credetti di sentire

      i medesimi gemiti. Suonò mezzanotte. L'ultimo tocco vibrava ancora

      cupo e sonoro,  quando  scoprii  una  debole  luce  illuminare  le

      finestre  della  scala  segreta  per  la  quale  noi poco fa siamo

      discesi.  La porta  si  aprì,  e  comparve  l'uomo  dal  mantello.

      Quest'era  il  momento  terribile;   ma  da  molto  tempo  mi  ero

      preparato: cavai il coltello, lo aprii, e mi tenni pronto.  L'uomo

      del mantello veniva direttamente verso di me,  e mi pareva tenesse

      in mano un'arma:  ebbi  timore,  non  di  una  lotta,  ma  di  non

      riuscire.

      Quando  fu  a pochi passi da me,  capii che l'arma non era che una

      vanga.  Non avevo ancora potuto immaginare a quale scopo il signor

      Villefort  teneva una vanga in mano,  quando egli si fermò accosto

      al gruppo d'alberi, gettò uno sguardo intorno, e si mise a scavare

      una fossa nella terra: allora m'accorsi che  teneva  qualche  cosa

      sotto il mantello,  che depose sull'erba per essere più libero nei

      suoi movimenti. Un po' di curiosità,  lo confesso,  si frammischiò

      al  mio  odio,  volli  vedere ciò che era venuto a fare Villefort:

      rimasi immobile, senza tirare il fiato, ed aspettai.

      Quindi mi venne  un  terribile  pensiero,  che  vidi  confermarsi,

      quando  il procuratore del re cavò dal mantello una cassetta lunga

      sei piedi e larga da sei a otto pollici.  Lasciai che deponesse la

      cassetta  nella  fossa  che  poi riempì di terra;  su questa terra

      smossa pestò i piedi per fare scomparire l'opera notturna.

      Allora mi slanciai su lui,  e gli conficcai il coltello nel petto,

      dicendogli:

      "Io sono Giovanni Bertuccio! La tua morte per mio fratello, il tuo

      tesoro  per  la  sua  vedova:  vedi bene che la mia vendetta è più

      completa di quel che speravo!"

      Non so se capì queste parole, ma credo di no.  Cadde senza mandare

      un  gemito:  sentii  l'onda del suo sangue scorrermi ardente sulle

      mani e sul viso,  ma io ero ebbro,  in delirio: questo  sangue  mi

      rinfrescava  invece  di  bruciarmi.  In  un secondo dissotterai la

      cassetta colla  vanga,  poi,  perché  nessuno  si  accorgesse  che

      l'avevo portata via,  riempii io pure la fossa, gettai la vanga al

      di là del muro,  e corsi fuori dalla porta,  che chiusi  a  doppio

      giro per di fuori, portando con me la chiave."

      "Bene" disse Montecristo,  "quest'era,  a quanto vedo,  un piccolo

      assassinio complicato con furto."

      "No, Eccellenza" rispose Bertuccio, "era una vendetta accompagnata

      da una restituzione."

      "E la somma almeno era forte?"

      "Non era danaro."

      "Ah,  sì,  ricordo" disse Montecristo: "non avete  parlato  di  un

      bambino?"

      "Precisamente,  Eccellenza.  Corsi  fino  al  fiume  sedetti sulla

      sponda,  e incuriosito  dal  contenuto  della  cassetta,  ne  feci

      saltare via la serratura col coltello. In un panno di tela batista

      era  avvolto  un bambino appena nato: il viso era livido,  le mani

      violette rivelavano  che  era  rimasto  vittima  di  una  asfissia

      causata  dalla  cordicella  che  aveva  avvolta  intorno al collo.

      Siccome però non era ancora freddo,  esitai a gettarlo  nell'acqua

      che  scorreva  ai miei piedi;  infatti dopo un momento mi parve di

      sentire un leggero battito del cuore.  Gli liberai  il  collo  dal

      cordone,  e  siccome  ero stato infermiere all'ospedale di Bastia,

      feci tutto ciò  che  avrebbe  potuto  fare  un  medico  in  simile

      occasione, gli soffiai coraggiosamente dell'aria nei polmoni. Dopo

      un quarto d'ora di sforzi inauditi, lo vidi respirare, e intesi un

      grido sfuggirgli dal petto.  Io pure gettai un grido,  ma un grido

      di gioia.  "Dio dunque non mi maledice" dissi  a  me  stesso,  "se

      permette  che ridoni la vita ad una creatura umana in cambio della

      vita che ho tolto ad un'altra!""

      "E che faceste  di  quel  bimbo?"  domandò  Montecristo.  "Era  un

      bagaglio molto impacciante per uno che doveva fuggire."

      "Per  questo non ebbi l'idea di tenerlo...  Ma sapevo che a Parigi

      vi è un ospizio, ove sono accolte queste povere creature. Passando

      per la barriera,  dichiarai  di  aver  trovato  quel  bimbo  sulla

      strada,  e  presi le mie informazioni.  La cassetta accreditava la

      mia versione;  la biancheria di  batista  indicava  che  il  bimbo

      apparteneva a persone ricche. Non mi venne fatta alcuna obiezione,

      mi  fu indicato l'ospizio che era situato alla estremità della rue

      Enfer,  e,  dopo aver presa la cautela di tagliare il pannolino in

      due  parti,  in  maniera  che  una  delle  lettere  che lo marcava

      continuasse ad avvolgere il fanciullo, mi riserbai l'altra, deposi

      il fardello nella ruota, e fuggii a gambe levate.

      Quindici giorni dopo ero  di  ritorno  a  Rogliano,  e  dicevo  ad

      Assunta:  Consolati,   sorella  mia,  Israele  è  morto,  ma  l'ho

      vendicato!

      Allora mi  chiese  la  spiegazione  di  queste  parole,  e  io  le

      raccontai tutto l'accaduto.

      "Giovanni" mi disse Assunta,  "avresti dovuto portarmi quel bimbo;

      lo avremmo chiamato Benedetto: e per questa buona azione,  Dio  ci

      avrebbe benedetti effettivamente!"

      In   risposta  le  consegnai  la  metà  del  pannolino  che  avevo

      conservata,  per poter reclamare il bimbo il  giorno  che  fossimo

      divenuti più ricchi."

      "E  con  quali  lettere  era  segnato  questo  pannolino?" domandò

      Montecristo.

      "Con una L ed una N sormontate dalla corona baronale."

      "Credo,  Dio me lo  perdoni,  che  voi  facciate  uso  di  termini

      araldici, Bertuccio! E dove avete fatti questi studi?"

      "Al vostro servizio, signor conte, dove s'impara ogni cosa."

      "Continuate, sono curioso di sapere altre due cose."

      "E quali, signore?"

      "Ciò  che  avvenne  di  questo ragazzo;  non mi diceste che era un

      maschio?"

      "No, signore, non ricordo di avervi detto ciò."

      "Ah, credevo... Mi sarò sbagliato."

      "No,  non  vi  siete  sbagliato,   perché  effettivamente  era  un

      maschio... Ma Vostra Eccellenza desiderava sapere due cose, qual è

      la seconda?"

      "La seconda è il delitto di cui foste accusato quando chiedeste un

      confessore, e l'abate Busoni venne a vostra richiesta a ritrovarvi

      nelle prigioni di Nimes."

      "Questa storia sarà forse troppo lunga, Eccellenza."

      "Che  importa?  Sono  appena  le  dieci;  sapete che non dormo,  e

      suppongo che non avrete gran voglia di dormire."

      Bertuccio s'inchinò, e riprese la narrazione.

      "Io,   un  po'  per  scacciare  le  tristi  rimembranze   che   mi

      assillavano,  parte per provvedere ai bisogni della povera vedova,

      mi rimisi al mestiere di contrabbandiere,  divenuto più facile per

      l'affievolimento delle leggi, che succede sempre alle rivoluzioni.

      Le coste del mezzodì particolarmente erano mal custodite,  a causa

      delle continue sommosse ora in Avignone, ora a Nimes, ora ad Uzèf.

      Noi approfittammo  di  questa  specie  di  tregua  che  ci  veniva

      accordata dal governo per annodare relazioni su tutto il litorale.

      Dopo l'assassinio di mio fratello nelle strade di Nimes, non avevo

      voluto  entrare  in  quella  città.  L'albergatore  col  quale noi

      facevamo affari,  vedendo che non volevamo più andar da  lui,  era

      venuto  da  noi,  ed  aveva fissata una succursale al suo albergo,

      sulla strada da Bellegard a Beaucaire,  all'insegna del  Ponte  di

      Gard.

      In  tal  modo  avevamo,  sia  dalla  parte  d'Aiguesmortes,  sia a

      Martigues, sia a Bouc,  una dozzina di luoghi dove depositavamo le

      nostre  mercanzie,  e  dove  al  bisogno  trovavamo un rifugio per

      metterci in salvo dai doganieri e dai gendarmi. E' un mestiere che

      frutta molto quello del contrabbandiere,  quando uno ci si applica

      con  una  certa  intelligenza  secondata da buona dose di vigoria.

      Quanto a me,  vivevo nelle montagne,  avendo conservato un  doppio

      motivo  di  temere  i  gendarmi  e  i doganieri,  poiché qualunque

      comparsa davanti ad un giudice, poteva produrre un processo,  vale

      a  dire  una escursione nel passato,  e si poteva scoprire qualche

      cosa di più importante che non sigari di  contrabbando,  e  barili

      d'acquavite senza lasciapassare.

      Così,  preferendo mille volte la morte ad un arresto,  conducevo a

      buon fine operazioni straordinarie,  e che,  più di una volta,  mi

      convinsero che la troppa cura che ci prendiamo del nostro corpo, è

      quasi  sempre il solo ostacolo alla buona riuscita di quei disegni

      che hanno bisogno di una risoluzione, e di una esecuzione vigorosa

      e determinata.  Infatti,  una  volta  fatto  il  sacrificio  della

      propria vita, non si è più simili agli altri uomini, e chiunque ha

      presa  questa  risoluzione,  ha  sentito centuplicarsi le forze ed

      allargarsi l'orizzonte."

      "Anche la filosofia! Bertuccio, voi dunque sapete un poco di tutto

      nella vostra vita?"

      "Oh, perdono, Eccellenza!"

      "No,  no,  è solo perché la filosofia alle dieci e mezzo di sera è

      ad ora troppo tarda.  Fuori di questa non ho altra osservazione da

      fare, visto che la trovo esatta,  ciò che non si può dire di tutte

      le filosofie."

      "I  miei  viaggi  divennero  dunque  sempre  più estesi sempre più

      fruttiferi.  Assunta era l'economa;  e la  nostra  fortuna  andava

      ingigantendosi. Un giorno ch'io partivo per un viaggio:

      ''Va''' disse lei. "Al tuo ritorno ti preparo una sorpresa."

      L'interrogai inutilmente; non volle dirmi di più, ed io partii. Il

      viaggio durò quasi sei settimane: eravamo stati a Lucca a caricare

      dell'olio,  ed  a  Livorno  a  prendere cotoni inglesi.  Il nostro

      sbarco si effettuò senza contrattempi,  tirammo i nostri guadagni,

      e ritornammo allegri e contenti.  Rientrando a casa, la prima cosa

      che vidi nel luogo più esposto della camera d'Assunta, in una cuna

      sontuosa,   relativamente  al  resto  dell'appartamento,   fu   un

      fanciullo  di  sette-otto mesi.  Diedi un grido di gioia.  Il solo

      momento di tristezza che provai dopo l'uccisione  del  procuratore

      del  re,  fu  quello  in  cui abbandonai il bambino.  Non ebbi mai

      rimorsi per l'assassinio in se stesso.

      La povera Assunta aveva indovinato tutto: approfittando della  mia

      assenza,  munita  della metà del pannolino ed avendo scritto,  per

      non dimenticarlo,  il giorno e l'ora precisa in cui il  bimbo  era

      stato deposto all ospizio,  era andata a Parigi a reclamarlo.  Non

      le venne fatta alcuna obiezione,  e le fu reso.  Ah,  vi confesso,

      signor conte,  che vedendo questa creatura dormire nella cuna,  il

      petto mi si gonfiò, e mi scorsero le lacrime.

      "In verità, Assunta, sei un'ottima donna" le dissi, "ed il Signore

      ti benedirà!"

      "Ciò mostrava che tu avevi fede..." disse Montecristo.

      "Ahimè! Eccellenza" rispose Bertuccio.  "Iddio però fece strumento

      della  mia  punizione  questo stesso fanciullo.  Mai si rivelò più

      prematuramente una natura più perversa!  E non  si  può  dire  che

      venisse  male  allevato,  poiché  mia  sorella lo trattava come il

      figlio di un principe.  Era un ragazzo di bellissimo aspetto,  con

      occhi celesti di quella tinta delle terraglie cinesi tanto bene in

      armonia  col  bianco  latteo del fondo;  solamente i capelli di un

      biondo troppo vivo,  davano al suo viso  una  strana  indole,  che

      raddoppiava la vivacità dello sguardo e la malizia del sorriso.

      Digraziatamente un proverbio dice che i rossi sono buoni del tutto

      o  del  tutto  cattivi:  il  proverbio  non  mentiva  sul conto di

      Benedetto,  che fin dalla prima infanzia si  manifestò  del  tutto

      cattivo.  E'  vero però che la dolcezza di sua madre radicò le sue

      prime inclinazioni.  Mia sorella andava continuamente  al  mercato

      della  città,  a  cinque  leghe di distanza,  per comprare i primi

      frutti e i dolci più delicati per questo  ragazzo,  che  preferiva

      agli aranci di Palma ed alle conserve di Genova le castagne rubate

      al vicino traversando le siepi,  o le mele secche del granaio, pur

      avendo a sua  disposizione  le  castagne  e  le  mele  del  nostro

      orticello.

      Un  giorno  (Benedetto  poteva  avere cinque o sei anni) il vicino

      Basilio, che, secondo l'uso del nostro paese,  non riponeva mai né

      la sua borsa, né i suoi gioielli, perché il signor conte sa meglio

      di  qualunque  altro  che in Corsica non vi sono ladri,  il vicino

      Basilio si lamentò con noi che gli era sparito un luigi.  Si pensò

      che  avesse  contato male,  ma egli pretendeva di esser sicuro del

      fatto suo.

      In tal giorno Benedetto aveva lasciata la casa di buon mattino,  e

      quando  lo  vedemmo  tornare  la  sera,  si  trascinava dietro una

      scimmia,  che diceva di aver trovata colla  catena  legata  ad  un

      albero; da più di un mese il cattivo ragazzo era voglioso di avere

      una  scimmia.  Un  saltimbanco ch'era passato per Rogliano,  e che

      aveva molti di questi animali che lo avevano  divertito  coi  loro

      esercizi,  gli  aveva,  senza dubbio,  ispirata questa malaugurata

      fantasia.

      "Nei  nostri  boschi  non  si  trovano  scimmie,   e  tanto   meno

      incatenate"  gli  dissi.  "Confessami dunque come ti sei procurata

      questa."

      Benedetto  sostenne  la  menzogna,   e   l'accompagnò   con   tali

      particolari che facevano più onore alla sua immaginazione che alla

      sua veracità. M'irritai, egli si mise a ridere; lo minacciai, fece

      due passi indietro.

      "Tu non puoi battermi" disse.  "Non ne hai il diritto,  perché non

      sei mio padre. "

      Noi ignorammo sempre chi gli aveva rivelato questo fatale segreto,

      che per parte  nostra  era  stato  gelosamente  custodito.  Questa

      risposta,  per  cui  il  ragazzo  si faceva interamente conoscere,

      quasi  mi  spaventò,  ed  il  mio  braccio  alzato  ricadde  senza

      percuotere il colpevole. Il ragazzo trionfò, e questa vittoria gli

      dette  un'audacia  tale,  che  da  quel  giorno  tutto  il  denaro

      d'Assunta,  il cui amore sembrava aumentare man  mano  che  se  ne

      rendeva  meno  degno,  fu  speso  in  capricci  che lei non sapeva

      combattere,  ed in follie che non aveva  il  coraggio  d'impedire.

      Quando  io ero a Rogliano,  le cose andavano meno male,  ma quando

      partivo, Benedetto diventava il capo di casa,  e tutto andava alla

      peggio.

      All'età  di dieci o undici anni tutti i suoi compagni erano scelti

      fra i giovani di diciotto-venti anni e fra i più cattivi  soggetti

      di Bastia e di Corte,  e già per qualche scappata, che meritava un

      nome più serio,  la giustizia ci aveva fatti chiamare.  Io ne  fui

      spaventato:  qualunque  interrogatorio  poteva  avere  conseguenze

      funeste.  Ero  proprio  allora  obbligato  ad  allontanarmi  dalla

      Corsica per una spedizione importante.  Vi riflettei lungamente, e

      col presentimento d'evitare qualche disgrazia,  decisi di condurre

      con  me  Benedetto.  Speravo  che  la  vita  attiva e faticosa del

      contrabbandiere,  la disciplina severa di bordo avrebbero corretto

      questa indole vicina a corrompersi, se già non era spaventosamente

      corrotta.

      Presi  dunque  Benedetto  a  parte,  e  gli  feci  la  proposta di

      seguirmi, con tutte quelle promesse che possono sedurre un giovane

      di  dodici  anni.  Egli  mi  lasciò  parlare  fino  alla  fine,  e

      quand'ebbi terminato scoppiò in una risata, dicendo:

      'Siete  pazzo,  zio mio!" (egli mi chiamava così quand'era di buon

      umore).  "Io cambiare la mia vita con quella che fate voi?  Il mio

      ottimo  ed  eccellente  far niente,  colle orribili fatiche che vi

      siete imposto?  Passare la notte al freddo,  il giorno  al  caldo,

      nascondersi continuamente,  ricevere schioppettate, e tutto questo

      per guadagnare un poco di denaro?  Del denaro ne ho quanto voglio,

      madre  Assunta  me  ne dà quanto ne domando: sarei un imbecille se

      accettassi la vostra proposta."

      Io rimasi stupefatto da quell'audacia, e da quel ragionamento.

      Benedetto ritornò a giocare coi suoi compagni,  e lo vidi  che  mi

      mostrava ad essi come un idiota."

      "Grazioso fanciullo!" mormorò Montecristo.

      "Ah,  se  fosse stato mio" rispose Bertuccio,  "se fosse stato mio

      figlio,  o  anche  mio  nipote,  lo  avrei  ricondotto  sul  retto

      sentiero,  perché la coscienza da la forza. Ma l'idea di picchiare

      un ragazzo,  di cui avevo ucciso il padre,  mi rendeva impossibile

      ogni  correzione.  Detti  buoni consigli a mia cognata,  che nelle

      nostre  discussioni  prendeva  sempre  la   difesa   del   piccolo

      disgraziato;  e,  siccome  mi  confessò  che  varie volte le erano

      mancate somme considerevoli,  le indicai un luogo dove  nascondere

      il nostro piccolo tesoro.  In quanto a me,  la mia risoluzione era

      presa.  Benedetto sapeva perfettamente leggere  e  fare  i  conti,

      perché quando per caso voleva studiare,  imparava in un giorno ciò

      che gli altri in una settimana.

      La mia risoluzione,  dicevo,  era presa: dovevo  ingaggiarlo  come

      segretario sopra un bastimento a lungo corso,  e, senza avvertirlo

      di niente,  farlo prendere un bel mattino,  e trasportare a bordo;

      in questo modo, raccomandandolo al capitano, tutto il suo avvenire

      dipendeva da lui. Stabilito questo partii per la Francia. Tutte le

      nostre  operazioni  dovevano  questa  volta eseguirsi nel golfo di

      Lione,  e si rendevano ogni giorno più difficili,  perché  eravamo

      nel  1829.  La  tranquillità era perfettamente ristabilita,  e per

      conseguenza il servizio delle coste più  severo  che  mai.  Questa

      sorveglianza   era  aumentata  momentaneamente  per  la  fiera  di

      Beaucaire che allora si apriva.  Gli inizi della spedizione furono

      eseguiti  senza  impaccio.  Noi  ancorammo la barca,  che aveva un

      doppio  fondo  nel  quale  nascondevamo  le  nostre  mercanzie  di

      contrabbando,  in  mezzo  ad  una quantità di battelli che stavano

      fitti alle due rive del Rodano da Beaucaire fino ad Alès.

      Giunti là,  cominciammo notte tempo a scaricare le merci proibite,

      ed  a farle passare in città per mezzo di gente in relazione cogli

      albergatori nelle case dei quali facevamo i depositi.  Sia che  la

      buona  riuscita  ci  rendesse  imprudenti,  sia  che fossimo stati

      traditi,  una sera verso le cinque pomeridiane mentre stavamo  per

      metterci  a  tavola,  accorse  tutto  affannato  il nostro piccolo

      mozzo, dicendo che aveva veduto una squadra di doganieri dirigersi

      dalla nostra  parte.  Non  era  precisamente  la  squadra  che  ci

      spaventava.  Da un momento all'altro,  e particolarmente allora si

      vedevano compagnie intere pattugliare e girare  sulle  sponde  del

      Rodano.  Ma  le  cautele  che,  al dire del mozzo,  questa squadra

      prendeva per non essere veduta.

      In un attimo eravamo in piedi;  ma era già troppo tardi: la nostra

      barca  evidentemente oggetto delle loro ricerche,  era circondata.

      Fra i doganieri distinsi qualche gendarme;  e tanto sospettoso  di

      questi,   quanto   indifferente  alla  vista  di  qualunque  altro

      militare, discesi sotto il ponte, e strisciando da un finestrello,

      mi lasciai calare nel fiume,  quindi mi misi a nuotare sott'acqua,

      non  respirando  che  a lunghi intervalli,  tanto bene,  che senza

      esser veduto raggiunsi un canale nuovo che  poneva  il  Rodano  in

      comunicazione  col canale da Beaucaire ad Aiguesmortes.  Una volta

      là ero salvo,  potevo proseguire  senza  essere  visto  in  quella

      direzione.  Non  era  a  caso,   senza premeditazione che avevo

      seguito questa via;  ho già parlato a  Vostra  Eccellenza,  di  un

      albergatore di Nimes, che aveva impiantata una piccola osteria fra

      Bellegarde e Beaucaire."

      "Sì" disse Montecristo, "me ne ricordo perfettamente, questo degno

      galantuomo, se non erro, era uno dei vostri associati..."

      "Precisamente"  rispose  Bertuccio,  "ma  da sette otto anni aveva

      ceduto il suo albergo ad un sarto di Marsiglia,  che dopo  essersi

      rovinato con quel mestiere, aveva voluto tentare la sua fortuna in

      un  altro.  Le  corrispondenze  che avevamo col primo proprietario

      furono mantenute col  secondo;  dunque  a  quest'uomo  contavo  di

      chiedere un asilo."

      "E come si chiamava costui?" domandò il conte di Montecristo,  che

      sembrava cominciare a prendere qualche interesse  al  racconto  di

      Bertuccio.

      "Si  chiamava Gaspare Caderousse,  ed era ammogliato con una donna

      del villaggio di Carconta,  che non conoscevamo per altro nome che

      quello  del  suo villaggio;  una povera donna colpita dalle febbri

      maremmane,  che moriva di  languidezza.  In  quanto  all'uomo  era

      gagliardo e robusto,  dai quaranta ai cinquanta anni,  e più d'una

      volta in  difficili  situazioni  aveva  dato  prova  di  prontezza

      d'animo e di coraggio."

      "E dicevate" domandò Montecristo,  "che tali cose accadevano verso

      l'anno?..."

      "L'anno 1829, signor conte."

      "In qual mese?"

      "Nel mese di giugno."

      "Al principio o alla fine?"

      "Precisamente la sera del 3."

      "Ah" fece Montecristo, "il 3 giugno 1829... Va bene, continuate."

      "Era dunque a Caderousse,  che  contavo  di  domandare  asilo;  ma

      secondo il solito,  anche nelle occasioni ordinarie, non entravamo

      da lui per la porta  che  dava  sulla  strada,  e  decisi  di  non

      derogare alle abitudini: scavalcai la siepe del giardino, camminai

      carpone fra gli ulivi e i fichi salvatici,  e pervenni, nel dubbio

      che Caderousse potesse avere qualche viaggiatore nell'albergo,  ad

      un  soppalco  nel  quale  avevo  più di una volta passata la notte

      tanto bene quanto nel  miglior  letto.  Questo  soppalco  non  era

      diviso  dalla  sala  comune del pianterreno dell'albergo che da un

      tramezzo di assi,  nel quale si erano praticate delle fenditure  a

      bella posta, perché di là potessimo spiare prima di palesarci.

      Volevo  capire  se  Caderousse  era solo,  dargli un segno del mio

      arrivo,  e terminare con lui il pasto interrotto  dall'apparizione

      dei  doganieri;  indi  profittare  del  temporale  in  arrivo  per

      raggiungere le rive del Rodano,  rendermi conto  di  ciò  che  era

      accaduto  alla barca ed a quelli che v'erano dentro.  Calai dunque

      nel soppalco,  e fu fortuna,  perché quasi  nello  stesso  istante

      Caderousse entrava in casa con uno sconosciuto. Mi tenni cheto, ed

      aspettai,    non    coll'intenzione    di   scoprire   i   segreti

      dell'albergatore, ma perché non potevo fare altrimenti;  e d'altra

      parte la stessa cosa era già accaduta altre volte.

      L'uomo che accompagnava Caderousse era evidentemente forestiero al

      mezzogiorno  della  Francia,  uno  di  quei mercanti che vengono a

      vendere i loro gioielli alla fiera di Beaucaire,  e che in un mese

      fanno affari per cinquanta ed anche centomila franchi.  Caderousse

      entrò vivacemente,  e per il primo;  quindi vedendo la sala vuota,

      secondo il solito, e soltanto guardata dal cane, chiamò la moglie.

      "Ehi!  Carconta!"  disse.  "Quel  degno uomo del prete,  non ci ha

      ingannati, il diamante è buono."

      Si sentì  un'esclamazione  di  gioia,  e  quasi  subito  la  scala

      scricchiolò  sotto  un  passo  appesantito dalla debolezza e dalla

      malattia.

      "Che dici?" domandò la donna più pallida di un morto.

      "Dico che il diamante è buono,  ed ecco qui il signore,  che è uno

      dei  primi  gioiellieri di Parigi,  disposto a darci cinquantamila

      franchi,  solo che gli proviamo che è veramente nostro.  Vuole che

      gli  racconti,  come  gli  ho  già  raccontato  io,  in  qual modo

      miracoloso il diamante è  caduto  nelle  nostre  mani.  Frattanto,

      signore,  sedetevi,  se  vi piace,  e siccome la stagione è calda,

      vado a cercare di che rinfrescarvi."

      Il  gioielliere  esaminò   con   visibile   attenzione   l'interno

      dell'albergo,  e  la  miseria  manifesta di coloro che stavano per

      vendergli un diamante che sembrava uscito dallo scrigno di un re.

      "Raccontate,  signora" diss'egli,  volendo senza dubbio profittare

      dell'assenza del marito,  perché non vi fosse alcun segno d'intesa

      di costui,  e controllare se i due racconti  corrispondevano  bene

      uno coll'altro.

      "Eh,  mio  Dio" disse la donna con volubilità,  "è una benedizione

      del cielo che non ci aspettavamo.  Immaginate,  caro signore,  che

      mio  marito  era in amicizia,  fin dal 1814 1815,  con un marinaio

      chiamato  Edmondo  Dantès.   Questo  povero  giovane   non   aveva

      dimenticato Caderousse,  che lo aveva obliato del tutto,  e gli ha

      lasciato morendo il diamante che avete veduto. "

      "Ma  in  qual  modo  n'era  divenuto   possessore?"   domandò   il

      gioielliere. "Lo aveva dunque prima d'entrare in prigione?''

      "No, signore, ma in prigione fece conoscenza, a quanto pare, di un

      inglese ricchissimo;  e quando il suo compagno di cella si ammalò,

      Dantès lo trattò come un  fratello,  così  l'inglese  uscendo  dal

      carcere  lasciò  al  povero Dantès,  che meno fortunato di lui era

      morto in prigione,  questo diamante,  ch'egli a sua  volta  ci  ha

      lasciato  in  legato  morendo,  e che il degno abate ci ha rimesso

      questa mattina."

      "E' lo stesso racconto" mormorò il gioielliere,  "e,  in  fin  dei

      conti,  la  storia può essere vera,  per quanto paia inverosimile.

      Non  c'è  dunque  che  il  prezzo  sul  quale  non  siamo   ancora

      d'accordo."

      "Come,  non  siamo  d'accordo?"  disse  Caderousse.  "Credevo  che

      avreste consentito al prezzo richiesto."

      "Cioè" rispose il gioielliere,  "al prezzo di quarantamila franchi

      che vi ho offerti."

      "Quarantamila  franchi!"  gridò  la  Carconta.  "Non  lo venderemo

      certamente.  L'abate ci ha detto che ne vale cinquantamila,  senza

      calcolare la legatura.

      "E   come   si   chiama   quest'abate?"   domandò   l'instancabile

      interlocutore.

      "L'abate Busoni" rispose la donna.

      "E' dunque uno straniero?"

      "Credo sia un italiano delle vicinanze di Mantova."

      "Mostratemi questo  diamante"  riprese  il  gioielliere,  "che  lo

      riveda  una  seconda  volta;  spesso si giudicano male le pietre a

      prima vista."

      Caderousse cavò di tasca un piccolo astuccio di  marocchino  nero,

      l'aprì e lo passò al gioielliere.

      Alla  vista di questo diamante grosso quanto una piccola nocciola,

      me lo ricordo come lo vedessi ancora,  gli  occhi  della  Carconta

      sfavillarono di cupidigia."

      "E  che  pensavate  di tutto ciò,  signor ascoltatore alle porte?"

      domandò Montecristo. "Prestavate fede a quella favola?"

      "Sì,  Eccellenza;  non ritenevo Caderousse un uomo cattivo,  e  lo

      credevo incapace di aver commesso un delitto, od anche un furto."

      "Questo  fa  più onore al vostro cuore che alla vostra esperienza,

      Bertuccio.  Avevate conosciuto questo Edmondo  Dantès  di  cui  si

      parlava?"

      "No,  Eccellenza,  fino allora non ne avevo mai sentito parlare, e

      dopo nemmeno,  tranne una sola volta dallo  stesso  abate  Busoni,

      quando lo vidi nelle prigioni di Nimes."

      "Bene, continuate."

      "Il  gioielliere prese l'anello dalle mani di Caderousse,  cavò di

      tasca un paio di piccole pinzette d'acciaio,  e  un  bilancino  di

      rame;  poi  allontanando  le  punte d'oro che ritenevano la pietra

      nell'anello fece uscire il diamante dal suo  alveolo,  e  lo  pesò

      scrupolosamente sul bilancino.

      "Giungerò  fino a quarantacinquemila franchi" disse,  "ma non darò

      un soldo di più. Siccome questo è il vero prezzo dell'anello,  non

      ho preso con me che questa somma.

      "Oh,  per  questo,  tornerò  con  voi a Beaucaire per prendere gli

      altri cinquemila franchi."

      "No" disse il gioielliere restituendo a Caderousse l'anello  e  il

      diamante,  "questo non vale di più;  e sono anzi dolente di avervi

      offerta questa somma,  dato che la pietra ha un  difetto  che  non

      avevo  visto prima;  ma non importa: io non ho che una parola,  ho

      detto quarantacinquemila franchi e non mi ritiro."

      "Almeno rimettete il diamante nell'anello" disse con  asprezza  la

      Carconta.

      Egli ritornò ad incassare la pietra.

      "Bene  bene,   bene"  disse  Caderousse,   rimettendosi  in  tasca

      l'astuccio. "Si venderà ad un altro."

      ''Sì"  rispose  il  gioielliere,   "ma  un  altro  non  sarà  così

      compiacente come me; un altro non si contenterà delle informazioni

      che  mi  avete  date.  Non  è  cosa  naturale che un uomo come voi

      possegga  un  anello  di  cinquantamila   franchi,   informerò   i

      magistrati,  e bisognerà ritrovare l'abate Busoni; e gli abati che

      regalano diamanti  da  duemila  luigi,  sono  rari.  La  giustizia

      comincerà col mettervi le mani addosso,  sarete messo in prigione,

      e se riconosciuto innocente verrete messo in libertà  dopo  tre  o

      quattro mesi di prigionia;  l'anello o si sarà perduto in spese di

      giudizio,  o vi sarà restituito con una pietra falsa  che  costerà

      tre  franchi  invece  di  cinquantamila,  e voglio anche ammettere

      cinquantacinquemila... Ma voi converrete con me, mio brav'uomo, si

      corrono sempre certi rischi a comprare."

      Caderousse e sua moglie s'interrogarono con uno sguardo.

      "No" disse Caderousse,  "non siamo abbastanza ricchi  per  perdere

      cinquemila franchi."

      "Come  volete,  mio  caro  amico...  Io  però avevo portato,  come

      vedete, bella moneta."

      E con una mano cavò di tasca un pugno d'oro che  fece  risplendere

      davanti agli occhi abbagliati degli albergatori,  e con l'altra un

      pacchetto di biglietti di banca.

      L'animo di Caderousse era  agitato  visibilmente  da  una  interna

      lotta  era  evidente che quel piccolo astuccio di marocchino,  che

      girava e rigirava nelle sue mani,  non gli sembrava corrispondere,

      come valore alla somma enorme che gli affascinava gli occhi.

      Egli si volse a sua moglie.

      "Che dici tu?" le domandò a bassa voce.

      "Daglielo,  daglielo"  disse.  "Se  ritorna  a  Beaucaire senza il

      diamante,  ci denunzierà,  e come ha detto,  chi sa se potremo più

      ritrovare l'abate Busoni!"

      "Ebbene,  sia  così"  disse  Caderousse: "prendete il diamante per

      quarantacinquemila franchi,  ma mia moglie vuole una catena d'oro,

      ed un paio di orecchini d'argento."

      Il  gioielliere  cavò  di  tasca  una  scatola  lunga e piatta che

      conteneva molti campioni degli oggetti domandati:

      "Prendete" disse. "Io sono generoso negli affari. Scegliete..."

      La donna scelse una collana d'oro che poteva costare cinque luigi,

      ed il marito un paio di orecchini del valore di quindici franchi.

      "Spero che non vi lamenterete?" disse il gioielliere.

      "L'abate aveva detto che costava  cinquantamila  franchi"  mormorò

      Caderousse.

      "Andiamo,  andiamo,  date  qua...  Che  uomo  terribile!" disse il

      gioielliere togliendogli  di  mano  il  diamante.  "Io  vi  sborso

      quarantacinquemila franchi: duemilacinquecento franchi di rendita,

      vale  a  dire  una  fortuna  come  vorrei  averla io,  e non siete

      contento."

      "Ed i quarantacinquemila  franchi"  domandò  Caderousse  con  voce

      rauca, "vediamo, dove sono?"

      "Eccoli"  disse il gioielliere.  E contò sulla tavola quindicimila

      franchi in oro, e trentamila in biglietti di banca.

      "Aspettate che accenda una lucerna" disse  Carconta.  "Non  ci  si

      vede più, e si potrebbe sbagliare."

      Infatti  durante  questa discussione era sopraggiunta la notte,  e

      colla notte l'uragano che minacciava da più di  una  mezz'ora.  Si

      sentiva  di  lontano  rumoreggiare  sordamente il tuono;  ma né il

      gioielliere,  né Carconta,  né Caderousse sembravano  occuparsene,

      tanto tutti e tre erano presi dal demonio del guadagno.

      Io   stesso   provai  una  strana  affascinazione  alla  vista  di

      quell'oro,  e di quel biglietti.  Mi sembrava di fare un sogno,  e

      come  succede  nei  sogni,  mi  sentivo  inchiodato  al mio posto.

      Caderousse contò e ricontò l'oro e i biglietti;  quindi  li  passò

      alla  moglie,  che  li  contò  e  ricontò  anche  lei.  Intanto il

      gioielliere faceva specchiare il lume  sul  diamante,  che  faceva

      luccicare  lampi  da  far  dimenticare  quelli ch'erano precursori

      dell'uragano, e che già cominciavano ad infiammare le finestre.

      "Ebbene siete soddisfatti?" domandò il gioielliere.

      "Sì"  disse  Caderousse.  "Dammi  il  portafogli,   e  trovami  un

      sacchetto, Carconta."

      Carconta aprì un armadio, e ritornò portando un vecchio portafogli

      di  cuoio,  dal  quale  furono  tolte alcune lettere sudice,  e vi

      furono  messi  i  biglietti,  ed  un  sacchetto  nel  quale  erano

      racchiusi due o tre scudi da sei lire, che probabilmente formavano

      tutta la fortuna della miserabile famiglia.

      "Eh" disse Caderousse, "quantunque mi abbiate alleggerito forse di

      un  diecimila  franchi  volete cenare con noi?  Ve l'offro di buon

      cuore."

      "Grazie" disse  il  gioielliere,  "deve  essersi  fatto  tardi,  e

      bisogna  che  ritorni  a  Beaucaire,  perché mia moglie sarebbe in

      pena." E cavò l'orologio. "Per Bacco!" gridò. "Sono quasi le nove.

      Non sarò a Beaucaire prima della mezzanotte.  Addio amici  miei...

      Se per caso ritornassero degli abati Busoni, pensate a me."

      "Fra  dieci  giorni  non sarete più a Beaucaire" disse Caderousse,

      "poiché la fiera finisce la settimana ventura."

      "Questo non importa; scrivetemi a Parigi, signor Giovanni, Palazzo

      Reale,  Galleria  delle  Pietre,   numero  45.   Farò  il  viaggio

      espressamente, se ne vale la pena."

      Uno  scroscio  di fulmine rintronò,  accompagnato da un lampo così

      vivo, che tolse quasi il chiarore della lucerna.

      "Oh, oh" disse Caderousse, "e volete partire con questo tempo?"

      "Oh, non ho paura del tuono" disse il gioielliere.

      "E dei ladri?" domandò Carconta. "La strada non è mai molto sicura

      in tempo di fiera."

      "Oh, quanto ai ladri, ecco ciò che tengo per loro..."

      E cavò di tasca un paio  di  piccole  pistole  cariche  fino  alla

      bocca.